mercoledì 11 luglio 2007

Privatizzazioni. 1994-2003

PIU' POVERI MA BRUTTI
Sergio Ferrari Roberto Romano

Premessa

Dopo quasi due decenni di intense esperienze di privatizzazione a livello mondiale, a cui l'Italia ha partecipato da protagonista, è possibile fare un primo bilancio. Un bilancio necessario se la sinistra vuole evitare gli errori compiuti nella passata legislatura. Errori teorici-tecnici quando si sono liberalizzate e privatizzate 1 società che nei fatti hanno un monopolio tecnico, cioè attività produttive che la teoria economica del Benessere (liberale) assegna al pubblico. Si pensi all'energia, al trasporto su ferro.
Esempi `concreti' non mancano, senza scomodare la `tecnica economica'. L'esempio più noto è quello disastroso delle ferrovie britanniche che, divisa la rete dal materiale rotabile e affidate a proprietà e gestioni separate, sembrano raggiungere ogni giorno nuovi primati di inefficienza, prezzi esorbitanti ed eclatanti disastri, con rilevanti perdite di vite umane. La società che gestisce la rete è addirittura fallita e ha dovuto essere salvata da un nuovo intervento pubblico. Un'altra testimonianza negativa, anche se non altrettanto disastrosa, è fornita dalla produzione e distribuzione dell'energia elettrica, sempre in Gran Bretagna. Il paese ha conosciuto persino dei black outs, e numerosi brown outs a, impensabili ai tempi del British Electricity Board. Un caso altrettanto noto è quello della produzione e distribuzione di energia elettrica in California, reso più clamoroso dal fallimento della Enron, la maggiore organizzatrice del mercato spot e future b di energia elettrica del mondo.
Inoltre, le privatizzazioni in Italia hanno ulteriormente indebolito il sistema economico nazionale. Infatti, all'imprenditoria privata non è sembrato vero - attraverso le privatizzazioni di reti pubbliche e servizi - di avere-creare occasioni di attività, in massima parte svolte al riparo della concorrenza dei paesi emergenti di maggior successo. Le stesse banche d'affari hanno intravisto da subito i guadagni potenziali, che avrebbero potuto realizzare con le privatizzazioni, diventando parte indispensabile del meccanismo. Non a caso se ne fecero paladine entusiaste e autorevoli, talvolta addirittura minacciose nei confronti di Stati recalcitranti o anche solo esitanti a imboccare la strada delle dismissioni. Ma in Italia si è fatto qualcosa di più: ai cittadini, oltre alla possibilità di una tregua fiscale, fu fatta altresì balenare la possibilità che con le privatizzazioni e una più energica concorrenza in questi settori sarebbero aumentate le opzioni di scelta assieme a una riduzione dei prezzi dei servizi.
Oggi, dopo 10 anni di privatizzazioni, siamo tutti più poveri e con minori strumenti per `aggredire' i vincoli del paese. Da quella storia non si salva proprio nessuno.


Dimensione delle privatizzazioni

La Relazione sulle privatizzazionic del ministero dell'Economia e delle finanze del luglio 2004 ha fotografato lo stato dell'arte delle privatizzazioni in Italia e come queste hanno contribuito in misura significativa alla riduzione del peso economico pubblico nel consesso internazionale. L'Italia si colloca al secondo posto, tra i paesi di area Ocse, per valore di introiti, e al primo a livello europeo, nella cessione ai privati delle imprese pubbliche. Dal 1994 al 31 dicembre 2003 lo Stato ha ceduto quote di proprietà pubblica per un ammontare di quasi 90 miliardi di euro. Inoltre, se all'inizio della legislatura l'attuale compagine governativa aveva una certa difficoltà a mettere all'ordine del giorno la cessione di ulteriori attività pubbliche, con il 2003 il paese `riconquista' un ruolo di rilievo a livello internazionale. Infatti, l'Italia rappresenta il 34% delle privatizzazioni mondiali nel 2003, cioè molto al di sopra dei picchi, già alti, del 1997 (14%), 1999 (15%) e del 2001 (15%).
Nonostante il 2003 sia stato un anno significativamente `modesto' per le privatizzazioni mondiali, soprattutto se comparate al periodo 1996-2000; nonostante la modesta crescita economica e la profonda crisi della `governance finanziaria' delle imprese nazionali; nonostante una sostanziale `stagnazione' degli scambi mobiliari; il governo di centro-destra è riuscito a realizzare operazioni per un controvalore di 16.600.300.500,00 euro (Vedi Grafico 1)

È soprattutto la cessione di alcune società ed enti a segnare l'orizzonte della presenza pubblica in economia. In particolare la cessione alla Cdp (Cassa depositi e prestiti) di una quota del 10,35% del capitale dell'Enel, di un pacchetto pari al 10% del capitale Eni e del 35% del capitale di Poste italiane, che fa il paio con la vendita del 30% del capitale sociale della Cdp (1.050 milioni di euro) a favore di 65 Fondazioni bancarie (Monte dei Paschi, San Paolo, Cr Province lombarde, Crt, ecc.) 2. Altre operazioni di un certo rilievo sono quelle legate alla vendita dell'Ente tabacchi italiani (100% del capitale), la vendita del 6,6% del capitale sociale dell'Enel verso la fine del 2003 e, come già detto, la `cessione' parziale della Cdp.
Sostanzialmente si è modificata la `cartina' delle partecipazioni pubbliche: 62,33% Alitalia Spa; 50,63% Enel Spa; 20,32% Eni Spa; 32,30% Finmeccanica Spa. Mentre ci sono ancora partecipazioni significative e/o comunque pari al 100%: Anas Spa (100%); Cdp (70%); Ferrovie dello Stato (100%); Poste Italiane (65%); rai Holding (100%). Ci sono, infine, anche partecipazioni `simboliche', ma non per questo meno importanti: Seat Spa (0,1%) e Telecom Italia Spa (0,1%).
Giusto per chiudere il cerchio dello stato dell'arte delle privatizzazioni, è opportuno richiamare il Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria) per il 2005: «Grazie alla manovra di aggiustamento e sviluppo che si intende attuare con la Legge finanziaria, con eventuale provvedimento collegato e con le operazioni di privatizzazione, cessione di crediti e di immobili ed altri attivi per un ammontare complessivo di circa 100 miliardi di euro nel quadriennio 2005-2008, il rapporto debito-Pil è previsto scendere al di sotto del 100% nel 2007». (vedi Figura 1)


Le motivazioni economiche e finanziarie delle privatizzazioni

La valutazione del processo di privatizzazione realizzato dall'Italia deve essere fatta sulla base degli obiettivi che i sostenitori delle dismissioni delle Partecipazioni statali hanno adottato, cioè l'idea di incidere sull'apparato produttivo nazionale, modificando alcune delle sue caratteristiche strutturali.
L'intento del processo di privatizzazione adottato dall'Italia era quello di migliorare l'efficienza delle attività produttive, ridurre le interferenze politiche e dare maggiore spazio alla libera iniziativa. Ciò avrebbe inoltre permesso, attraverso le entrate straordinarie, di ridurre l'indebitamento pubblico mediante l'acquisto e l'annullamento dei titoli pubblici in circolazione.
Sicuramente le dismissioni hanno contribuito a contrarre in parte il debito pubblico, ma alla luce dello stato dell'economia e, soprattutto, del tessuto manifatturiero nazionale 3, lo stesso risultato, probabilmente, poteva essere raggiunto attraverso degli investimenti addizionali, tesi a far crescere la componente ad alta tecnologia realizzata sul territorio nazionale.
Con le privatizzazioni, sostanzialmente, si voleva ridefinire l'intreccio tra finanza e industria al fine di creare le condizioni necessarie per la nascita di filiere produttive originali e una maggiore e più qualificata internazionalizzazione delle imprese nazionali, e per questa via determinare un riposizionamento strategico dell'Italia sul mercato internazionale.
La necessità di avvicinare il tessuto produttivo nazionale alla media delle caratteristiche dei principali paesi industrializzati ed europei, per quanto concerne i cosiddetti players, cioè un rafforzamento e/o nascita di nuovi soggetti industriali, assieme a un miglioramento dell'efficienza del sistema per quanto riguarda i servizi infrastrutturali, era non solo un problema dirimente, ma doveva essere un terreno fertile per la sinistra.


Gli effetti delle politiche adottate

Gli effetti delle privatizzazioni sono di tipo finanziario e tecnologico-produttivo.
Dal lato `produttivo' è bene ricordare che mediamente i costi variabili delle imprese sono condizionati dai servizi erogati dalle Publics Utilityes per una percentuale pari a quasi il 10%, mentre per le famiglie al 9%. Confindustria ha calcolato che per ogni 100 euro di prodotti dell'industria manifatturiera acquistati da imprese e consumatori, attraverso le interdipendenze tra settori, vengono attivati 16 euro per l'utilizzo di servizi di pubblica utilità. Forse in questo modo si spiega l'interesse da parte dei privati per questi settori. Le privatizzazioni di questi settori, comunque, hanno permesso ai nuovi proprietari, per esempio Benetton per la Società autostrade, di precostruire dei vantaggi nei confronti di chiunque volesse entrare in questo `mercato' protetto, cioè avere degli extraprofitti. Altri casi sono legati alle telecomunicazioni fisse. Inoltre, se dal lato occupazionale il passaggio da pubblico a privato non ha prodotto variazioni di rilievo, è altrettanto vero che è aumentata la redditività di queste società, senza che vi fosse un significativo abbassamento dei prezzi dei servizi. Venendo meno nel governo di queste imprese le ragioni politiche e pubbliche, era del tutto logico che i nuovi proprietari favorissero i dividendi a discapito della riduzione dei prezzi o degli investimenti.
Dal lato finanziario, le misure adottate dal paese in materia fiscale all'inizio degli anni '90, per esempio quelle sulla previdenza integrativa o quelle che spingevano verso la nascita di nuovi soggetti giuridici (imprese) per agganciare il capitalismo manageriale di tipo europeo, hanno reso meno appetibili i titoli di Stato e l'interesse collettivo per i servizi universalistici, e per questa via spinto il risparmio delle famiglie verso i fondi di investimento e il mercato obbligazionario e azionario.
I consumi delle famiglie in questi anni non sono diminuiti, in quanto i rendimenti decrescenti dei titoli di Stato sono stati sostituiti da quelli, più alti, dei fondi di investimento. Sono state soprattutto le privatizzazioni, assieme ad altre misure fiscali, a stimolare e orientare il risparmio verso questi nuovi strumenti finanziari, introducendo elementi di azionariato diffuso attraverso una produzione legislativa flessibile sulle privatizzazioni, che teneva conto sia della necessita di preservare un nocciolo duro di governo delle imprese privatizzate, sia della opportunità di coinvolgere i cittadini che `prestavano' il denaro. Non a caso, la produzione legislativa italiana in materia teneva assieme i due principali modelli di riferimento: quello di corporate governance ad azionariato diffuso (inglese) - in cui i piccoli risparmiatori e gli investitori istituzionali svolgono un ruolo fondamentale nel controllo del management - e quello di una struttura societaria fondata sulla individuazione e cooptazione di un gruppo ristretto di azionisti di riferimento (francese), al fine di determinare un nucleo stabile di controllo.
Lo sviluppo di questo paradigma, almeno fino al 2000, non trova nessun ostacolo ed è favorito dalla forte crescita della Borsa in termini di capitalizzazione, in gran parte attribuibile alle ex Partecipazioni statali.
In un certo senso le misure fiscali e politiche adottate hanno intercettato un bisogno vero del paese: sia quello del sistema delle imprese - che aveva bisogno di nuovi e più robusti finanziamenti per acquisire nuove società al fine di `traguardare' una dimensione di scala adeguata per `competere' sul mercato internazionale (non a caso il numero delle azioni e delle imprese in Borsa non ha mutato di molto le proprie caratteristiche e le uniche novità sono interamente attribuibili alle ex Ppss), che la necessità dei risparmiatori di trovare uno sbocco finanziario più redditizio per fare fronte al decrescente rendimento dei titoli di Stato.
L'aspetto più `inquietante' della ri-allocazione del risparmio delle famiglie è legato al listino del mercato della Borsa e agli effetti finanziari. Infatti, i titoli di imprese pubbliche oggetto di Opv (Offerta pubblica di vendita d) hanno rappresentato da prima il 32,5% della capitalizzazione complessiva della Borsa (1992), fino al 51,9% del 2000. Sostanzialmente soltanto attraverso la dismissione delle ex Ppss è stato possibile fare crescere la Borsa. Il sistema privato nazionale ha mancato un'occasione preziosa per trovare un equilibrio superiore in termini di governance e di capacità di strutturare economie di scala adeguate. Infatti, le politiche adottate hanno, nei fatti, indebolito i cosiddetti players deboli e rafforzato quelli che comunque avevano una posizione oligopolistica. Inoltre, la presenza di un azionista forte ha condizionato l'operato delle imprese, soprattutto quando, e quanto più, i diritti di controllo eccedono i diritti di proprietà 4.
Infine l'aver accettato il sistema dell'acquisto del patrimonio pubblico `a credito' - attraverso i prestiti bancari, che venivano successivamente caricati sul bilancio delle imprese acquistate -, la debolezza e l'assenza di requisiti tecnologici da parte degli acquirenti nelle clausole di cessione, la debolezza e la sottovalutazione dei processi economici reali necessari per creare le condizioni di effettiva concorrenza (si pensi ai `monopoli naturali'), l'assenza di una visione di insieme dei processi internazionali in tema di mercato e competitività tecnologica, l'assenza di capacità d'intervento pubblico sugli extraprofitti nel caso delle concessionarie di servizi hanno concorso a un enorme trasferimento della ricchezza del paese, di cui ha beneficiato solo una parte ristrettissima della popolazione, ma con delle pesanti implicazioni economiche e tecnologiche per il paese. Tutti i limiti del capitalismo nazionale sono rimasti intatti e, se possibile, si sono accentuati 5.
L'Italia è ancora `costretta' dalla propria specializzazione produttiva a un tasso di crescita del Pil significativamente più contenuto della media europea, ad importare i beni ad alto valore aggiunto realizzati al di fuori del territorio nazionale e a esportare beni e servizi con bassi tassi di crescita. Inoltre, mentre l'Europa industriale si è integrata attraverso il consolidamento dei beni intermedi e di investimento, l'Italia ha continuato il suo percorso di `meridionalizzazione', specializzandosi nei beni di consumo. Questo processo, nei fatti, si è rafforzato a partire proprio dalle privatizzazioni mal gestite. Se i fini dichiarati erano condivisibili, l'implementazione era, per usare un eufemismo, dicotomica.
Sostanzialmente si è aperta una nuova fase per il capitalismo italiano, efficacemente descritta da Turani, in «Affari e Finanza» del 26 gennaio 2004: «Una volta gli imprenditori, con l'aiuto dei loro commercialisti, passavano le notti a falsificare i propri bilanci al fine di nascondere gli utili al fisco per pagare meno tasse. Adesso il mondo è capovolto. Gli stessi imprenditori passano notti insonni, sempre con i loro commercialisti, a falsificare i bilanci al fine di nascondere le perdite dovute alla cattiva gestione».


La presenza storica dello Stato

La struttura industriale storica dello Stato faceva principalmente capo all'Iri, all'Eni e all'Efim, gestite mediante un sistema di holding, cioè gruppi di società stabilmente collegate tra di loro. Nel 1992 queste società sono state trasformate in società per azioni e in parte dismesse, mentre l'Efim (una specie di Iri realizzato nel dopoguerra, ma per il solo settore manifatturiero e creato per evitare un eccesso di presenza dell'Iri, assieme a motivi di equilibro tra le forze politiche di allora) a causa del suo eccessivo debito è stato soppresso.
Stesso percorso è stato adottato dall'Iri, che dal giugno 2000 ha cessato le proprie attività, anche se per alcune sue ex controllate la presenza dello Stato appare sufficiente per indirizzare e sostenere i settori strategici del paese. Per esempio Finmeccanica.
In particolare il gruppo Iri è stato caratterizzato da una estrema e per certi versi eccessiva diversificazione, allargando oltre modo la propria struttura polisettoriale, rendendo complesse, per usare un eufemismo, l'organizzazione e la gestione della produzione. L'Iri è stato costituito nel 1931 come ente di salvataggio, con il compito di rilevare i pacchetti azionari di alcune grandi imprese in crisi, che in quella fase economica erano detenuti da numerose banche. Ma negli anni cinquanta, pur conservando quella funzione di salvataggio dei privati, si trasforma in un strumento di ammodernamento del paese. Acciaierie, autostrade, telecomunicazioni, ecc. sono necessari anche per lo sviluppo del capitalismo nazionale, che non dispone delle risorse e delle capacità necessarie per intervenire in settori ad alto investimento. Sostanzialmente all'Iri è assegnato un ruolo di punta nei settori dove più forti sono i processi di innovazione tecnologica. La storia dell'Iri è abbastanza rappresentativa delle speranze e delle illusioni che l'intervento pubblico ha suscitato, ma allo stesso tempo ha rappresentato, anche nel recente passato, l'unica struttura produttiva nazionale complessa capace di misurarsi con i settori ad alta tecnologia, che si sono sviluppati negli altri paesi europei. Una storia e un'esperienza in chiaro scuro, che merita una sensibilità politica più profonda e attenta di quella manifestata, soprattutto se consideriamo i gravi e persistenti ritardi tecnologici del settore privato, come il passivo della bilancia tecnologica suggerisce.
L'Eni, invece, è stato istituito nel 1953 e, a differenza dell'Iri, ha un campo di azione più limitato. Infatti gestisce le partecipazioni statali nel settore dell'industria petrolifera e nei settori che ad essi si collegano a partire dalla petrolchimica, poi abbandonata insieme al fallimento nazionale complessivo di questo settore. Fino a non molto tempo addietro esercitava una sorta di monopolio nella ricerca, sfruttamento e trasporto degli idrocarburi. A differenza dell'Iri, l'eni ha seguito una strada diversa e più prudente nella sua privatizzazione. Certamente ha influito la forte dipendenza del paese per quanto riguarda l'approvvigionamento petrolifero e del gas. Soprattutto, ci si è resi conto che in alcuni settori la liberalizzazione può anche `realizzarsi', ma non per questo lo Stato non deve o non può indirizzare l'attività economica e industriale.
L'immenso `patrimonio pubblico', dopo anni di esercizio anche positivo, con l'inizio degli anni '90 finì con il subire una trasformazione epocale, che determinò un oggettivo mutamento dei costumi e delle consuetudini degli italiani (quanto alle forme di impiego dei propri risparmi), descritti nel capitolo precedente.


Il ruolo dell'Europa

La liberalizzazione del mercato assieme alla cessione di parte delle partecipazioni pubbliche sono da attribuire anche, in qualche misura, alle politiche economiche adottate dalla Comunità europea. I tratti più salienti di questa influenza sono rintracciabili nel Trattato Ue negli Artt. 72 b, che vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitale, e 53, che dispone la libertà di `stabilimento' all'interno dell'Ue dei cittadini dei paesi membri. Anche il Patto di stabilità e sviluppo, che `obbliga' i paesi membri al pareggio di bilancio nel medio periodo, costringe molti Stati a realizzare politiche di dismissione della proprietà pubblica per agganciare i vincoli del Trattato di Maastricht. L'attuale discussione sulla ridefinizione dei criteri di attuazione del Patto di stabilità europeo non aiuta i paesi fortemente indebitati. Infatti, il deficit del bilancio pubblico sarà valutato sulla base della situazione economica, ma anche sulla sostenibilità del debito pubblico. Per l'Italia significa un condizionamento peggiore, se possibile, dei precedenti criteri. Se la posizione del ministro del Tesoro rimane quella di sostenere gli indirizzi della Commissione, sarà difficile immaginare un intervento diverso da quello preannunciato nel Dpef per il 2005. In questo senso, il sostegno alla revisione del Patto di stabilità, dato da alcuni esponenti politici del centro-sinistra è, per usare un eufemismo, fuori luogo se non un cattivo presagio di ciò che potrebbe succedere.
Nonostante i tentativi di rendere più stringenti i vincoli di bilancio pubblico, occorre sottolineare come l'Ue ha lentamente allargato la maglia interpretativa della normativa sulla concorrenza. Non a caso i processi di liberalizzazione in Europa non sono stati identici per tutti i paesi. Alcuni hanno liberalizzato e privatizzato più di altri. Sostanzialmente l'Ue ha definito delle direttive, ma la loro attuazione fa capo ai singoli Stati. Semmai, sorprende l'acritica adesione a tali orientamenti di pezzi importanti della sinistra europea e nazionale, nonostante che le direttive Ue lasciassero degli spazi interpretativi e di autonomia forti agli Stati. La vicenda della liberalizzazione dell'energia è illuminante: la Francia ha liberalizzato meno della media europea senza incorrere in sanzioni, mentre l'Italia è andata oltre la stessa direttiva.
Infatti, l'Ue sosteneva anche che l'accesso garantito all'energia, alla salute, al trasporto, alle comunicazioni, all'istruzione, proprio perché contribuiscono alla coesione economica, sociale e geografica, potevano essere forniti sia dalla pubblica amministrazione sia, in certe condizioni, da imprese pubbliche o private. La liberalizzazione e la conseguente privatizzazione, che è bene ricordare non sono la stessa cosa, potevano essere valutate sulla base di criteri diversi da quelli adottati in questi ultimi anni. Oggi abbiamo poco libero mercato, tante privatizzazioni e 90 miliardi di euro in meno per fare politica industriale.


Alcuni interventi possibili

Se il quadro delineato inibisce una serie di azioni, è altrettanto vero che è ancora possibile prefigurare delle politiche attive capaci di `aggredire' i vincoli che condizionano il paese. Non si tratta solo di riflettere criticamente sui fallimenti dei processi di privatizzazione/liberalizzazione attuati sino ad ora e introdurre regole e criteri, nonché capacità di controllo molto più autorevoli e forti; non si tratta solo di liberarsi da un degrado e da un sottobosco che ha preso il posto, in peggio, di quelli vecchi; piuttosto si tratta anche di riflettere circa la natura e gli strumenti dell'intervento pubblico necessari negli anni 2000.
Parafrasando Abramo Lincon: «l'oggetto legittimo della azione pubblica è fare per la gente ciò che ha bisogno di essere fatto e che essi, con i loro sforzi individuali, non possono fare o fare altrettanto bene da sé». Ma ciò che ha bisogno di essere fatto non è sempre e solo la stessa cosa. È proprio su questo punto che occorre avere capacità di lettura, ottiche adeguate e, possibilmente, valori da tradurre in scelte.
In effetti, se l'Italia ha forti difficoltà nel generare beni e servizi ad alto valore aggiunto e se tutto questo incide fortemente sulle sue possibilità di sviluppo, si determinano quelle condizioni per cui occorre prevedere e definire l'intervento pubblico. Questo intervento pubblico, a sua volta, deve rispondere a determinate esigenze e caratteristiche che nascono dalla specificità del problema economico e industriale che occorre affrontare. Occorre una capacità di selezionare gli obiettivi produttivi che, per quanto `concertati', devono trovare un riscontro proprio nella trasformazione tecnologica del nostro sistema produttivo, con una attenta valutazione degli aspetti qualitativi di questa trasformazione, che:
deve poter disporre di risorse e di una gestione finanziaria certa anche nel tempo;
deve tradursi in progetti di rilevanza nazionale, dove la gestione deve essere affidata a organismi attuativi pubblici che posseggano capacità di ricerca e sviluppo tecnologico e dove il contributo finanziario pubblico, se consente di poter superare i vincoli comunitari, deve anche superare i vincoli strutturali che ostacolano in Italia l'iniziativa privata lungo questo percorso di innovazione.
Il coinvolgimento in questi progetti di attori industriali interessati, preesistenti o da creare ex novo, nonché delle competenze tecnologiche esistenti nel paese, comunque collocate, deve essere una condizione per l'attuazione di questi progetti.
Mentre la gestione finanziaria di un apposito fondo, ricavato da parte delle entrate (si veda «il manifesto» del 22 agosto 2004 e), potrebbe trovare un riferimento nella Cdp - assieme alla sua funzione storica, ancorché ridimensionata dalla sua recente trasformazione -, la funzione di agenzia operativa-tecnologica potrebbe essere benissimo attribuita - anche in questo caso assieme alla sua funzione storica, ancorché ridimensionata dalla sua recente trasformazione - con pochi cambiamenti a un ente già esistente, per esempio l'Enea, superando i tempi molto lunghi di realizzazione di una nuova struttura sostanzialmente analoga. Occorre, in effetti, distinguere tra una gestione di progettualità tecnologico-scientifica ampia e articolata - assieme alla gestione delle scelte che prioritariamente queste progettualità richiedono - e la conduzione di imprese nel contesto competitivo internazionale. Sono scelte che impongono strumenti gestionali, che oggi devono qualificare non solo il nuovo e necessario intervento pubblico, ma le modificazioni necessarie della qualità dello sviluppo, della creazione e distribuzione della ricchezza creata, della qualità della domanda.
È altrettanto evidente, infine, che la struttura dei ministeri del 2000 deve in qualche modo essere ripensata, assegnando al ministero per le Attività produttive compiti che possano veramente condizionare lo sviluppo del paese, comprendendovi quindi anche alcuni compiti del Miur. In particolare occorre individuare una sede di governo capace di elaborare le scelte che, come tali, interessano certamente lo sviluppo industriale, ma anche altri aspetti della vita e della qualità della vita economica e sociale del paese. Tutto questo non è alternativo ad azioni di tipo orizzontale tali da agevolare, con il massimo di automatismo, la spesa in ricerca delle imprese - cosa su cui oggi non si può dare una valutazione positiva in termini di efficacia -, e insieme la crescita, secondo meccanismi sostanzialmente interni e anch'essi certi nella definizione delle risorse, di un tessuto di ricerca da parte degli enti pubblici di ricerca e delle Università.




note:

1 Liberalizzazione e privatizzazione non sono sinonimi, ma fanno capo a due processi ben distinti.
a Si definiscono brown outs i cali improvvisi, parziali (dal 12% in su) e `brevi' (da due ore a due giorni) della potenza della elettricità erogata dalle reti.
b L'espressione `mercato spot' fa riferimento alla vendita per contanti di merci o valuta. I futures sono contratti di compravendita, in cui le parti si impegnano a scambiarsi a un prezzo (future price) e a una scadenza prefissati beni o valuta. I futures sono quotati in Borsa; e sono pertanto anche valori mobiliari (NRDM).
c Cfr. Relazione sulle privatizzazioni del ministero dell'Economia e delle finanze, luglio 2004, in www.tesoro.it/web/ultimi_documenti.asp (NRDM).
2 L'elenco delle Fondazioni è disponibile a p. 27 della Relazione sulle privatizzazioni, cit.
3 Il tessuto produttivo nazionale è sostanzialmente caratterizzato da attività produttive tradizionali, di scala, e solo in minima parte da attività ad alto contenuto tecnologico. Non a caso, i beni con queste caratteristiche sono per lo più importati.
d L'Offerta pubblica di vendita è una modalità di offerta al pubblico da parte di un azionista di azioni in suo possesso di una Spa (sia che questa sia quotata in Borsa, che nel caso che non lo sia). La vendita di azioni, a un prezzo prefissato dal venditore, deve essere in questo caso accompagnata da una Nota illustrativa, che descriva minutamente e fedelmente la situazione dell'azienda, in modo da permettere al pubblico di valutare la convenienza dell'acquisto. La Nota illustrativa deve essere autorizzata dalla Consob (NDRM).
4 Cfr. Luigi Spaventa, Relazione annuale della Consob, del 7 aprile 2002.
5 Cfr. S. Ferrari, R. Romano, Italia ed Europa, Franco Angeli, Milano 2004.
6 La normativa europea in tema di liberalizzazione è negli Artt. 3, 12, e dall'81 all'89 del Trattato Ue.
e Cfr. Bruno Bosco e Roberto Romano, Un programma economico per la crisi, «il manifesto», 22 agosto 2004 (NDRM).

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