domenica 22 luglio 2007

E io pago

http://www.nogod.it/news2007archivio.htm


La giunta regionale del Veneto, presieduta da Giancarlo Galan, ha stanziato 354mila euro per le vacanze che B16 trascorrerà a Lorenzago di Cadore (Belluno) dal 9 al 27 luglio. Tra le voci di spesa: 20mila euro per far piallare l’angolo di preghiera; 50mila euro per asfaltare i due chilometri della strada d’accesso alla residenza pontificia, mentre la recinzione costerà 24.882 euro; 13mila euro per vasi e addobbi floreali della casa; 3mila euro per piante ad alto fusto, comprese zolle erbose; 7mila euro per la realizzazione di un sentiero in ghiaia dove stazioneranno le guardie svizzere.

http://notizie.alice.it/notizie/politica/2007/07_luglio/08/papa_da_domani_benedetto_xvi_in_vacanza_tra_monti_ e_libri,12844396.html?pmk=nothpfad

PAPA/ DA DOMANI BENEDETTO XVI IN VACANZA TRA MONTI E LIBRI
A Lorenzago fino al 27. Anno scorso finì primo volume su Gesù


Città del Vaticano, 8 lug. (Apcom) - Concluso un tour-de-force di lavoro ed impegni durante il quale, nel giro di poche settimane, ha promulgato due provvedimenti di sua iniziativa (Motu proprio sulla 'legge elettorale' del Conclave e sulla messa in latino), ha deciso nomine del calibro del cardinale Jean-Louis Tauran al pontificio consiglio per il dialogo interreligioso ed ha dato alle stampe una impegnativa lettera ai cattolici cinesi che riapre i giochi diplomatici tra la Santa Sede e il paese del Dragone, papa Benedetto XVI da domani inizia un periodo di villeggiatura tra le montagne di Lorenzago di Cadore.

"L'aria di montagna mi farà bene e potrò dedicarmi più liberamente alla riflessione e alla preghiera", ha spiegato oggi accomiatandosi dai pellegrini raccolti in piazza san Pietro per l'Angelus domenicale. E' noto, infatti, che il Papa è solito dedicare le sue vacanze al riposo, sì, ma senza rinunciare all'attività intellettuale. L'anno scorso in estate portò a compimento la stesura del primo volume del libro 'Gesù di Nazaret', un testo che ripercorre la vita di Cristo dal battesimo nel fiume Giordano alla trasfigurazione. Rimane ora il secondo volume da scrivere, che sarà dedicato all'infanzia di Gesù e al mistero pasquale, e con ogni probabilità Benedetto XVI vi porrà mano - o quanto meno vi dedicherà riflessioni e letture - dalle montagne del bellunese. Amante della musica classica e sacra, il Papa è poi solito passare una parte del suo tempo libero al pianoforte. Il tutto, inframezzato di qualche camminata sempre accompagnato dal suo segretario personale Georg Gaenswein.

Per i primi due anni del suo pontificato, Ratzinger, che quest'anno ha compiuto ottant'anni, aveva scelto le montagne valdaostane di Introd, a Les Combes. Un luogo dove, peraltro, le cronache hanno riferito, nei mesi scorsi, della decisione del parroco, don Paolo Curtaz, 41 anni, di lasciare il suo incarico per "un anno di riflessione" dopo aver ammesso in privato di essere papà di una bambina di 3 anni. Benedetto XVI aveva scelto la Val D'Aosta sulle orme di Giovanni Paolo II, e lo stesso motivo ha dettato la scelta di Lorenzago di Cadore, dove Wojtyla aveva trascorso le sue vacanze per sei volte negli anni 1987-1988, 1992-1993, 1996, 1998. Papa Ratzinger soggiornerà nella Casa della Diocesi di Treviso adiacente al Castello di Mirabello (che ospiterà il corpo della gendarmeria e il personale).

La partenza da Roma è prevista per domani mattina, dall'aeroporto di Ciampino. All'aeroporto di Treviso-Istrana, alle 11.30, lo accoglieranno Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto, il vescovo di Treviso, mons. Andrea Bruno Mazzocato, ed altre autorità civili e religiose locali. Il Papa proseguirà per Lorenzago in elicottero, con arrivo previsto alle ore 12.00. Nel luogo dell'atterraggio accoglieranno il Santo Padre mons. Giuseppe Andrich, vescovo di Belluno-Feltre, il prefetto di Belluno Raimondo Provvidenza, il sindaco di Lorenzago, Mario Tremonti, mons. Renzo Marinello, vicario foraneo del Cadore e don Sergio De Martin, Parroco di Lorenzago. Benedetto XVI lascerà il Veneto il 27 luglio in serata e si trasferirà subito nella residenza estiva di Castel Gandolfo, sui Colli Albani. Le udienze generali sono dunque sospese fino al mercoledì primo agosto, mentre il Papa reciterà l'Angelus di domanica 15 luglio dalla residenza del Castello di Mirabello e quello di domenica 22 luglio dalla piazza Calvi di Lorenzago.

giovedì 19 luglio 2007

DI PIETRO: COMUNISTI SOLO A CUBA E ITALIA

"Mi sforzo di vedere dopo Cuba e l'Italia qual è l'altro Paese in cui si sta cercando di lavorare per ricostruire il Partito comunista". Lo ha detto Di Pietro, presentando l'"Incontro nazionale" dell'IdV. "Saremo leali con Prodi", ma "quando il referendum sarà stato approvato o quando ci sarà una nuova legge elettorale modificata dal Parlamento,il governo dovrà ritrovare la sua indentità". "Non si può andare avanti a colpi di fiducia" o si torni alle urne.In futuro ancora con la sinistra radicale? "Difficile stare con persone che sfasciano vetrine e non accettano le regole".

www.televideo.rai.it


Sempre Selva

Forte dei Marmi (Lucca), 19 lug. - (Adnkronos) - (dall'inviato Cristiano Fantauzzi) - "Penso che Gustavo Selva debba essere espulso dal partito. Se nessuno affronta la questione, la porro' io nella prossima assemblea nazionale". Lo ha detto Gianni Alemanno nel corso del suo intervento alla scuola di formazione estiva di Azione universitaria in corso in Versilia. Per l'esponente di An "non e' accettabile che Selva non si dimetta. Posso capire tutto, anche l'eta', ma e' impensabile che non paghi un prezzo per un gesto bruttissimo, che offre una pessima immagina di tutto il Parlamento".

mercoledì 18 luglio 2007

Zaia: presidente provincia Treviso 2004

I muli come tosaerba lungo i fossati. Idea geniale o stupida della Provincia di Treviso?
Treviso, 14 dicembre 2004. Il noto presidente della Provincia di Treviso, Luca Zaia, ovvero il Rodolfo Valentino con la "s" moscia (segno distintivo dei nativi della sinistra Piave), ha avuto la "bollicina" idea di acquistare sei somarelli nani (veri e non di cera e gomma come li fa l'artista Cattelan) per tenere puliti i cigli stradali, nella speranza di diminuire i costi ormai lievitatissimi per l'ordinaria manutenzione stradale (alla provincia compete la manutenzione delle strade provinciali). Ma già qualcuno (della destra Piave) la considera una specie di scemenza dato che i poveri animali ingoieranno chili di polveri sottili ed altri inquinanti mescolati all'erba che cresce lungo i fossati o le aiuole spartitraffico."Zaia da un po'di tempo sta dando i numeri, dopo aver consumato miliardi di vecchie lire in promozioni pubblicitarie che non hanno portato i frutti desiderati: promozione turistica che non interessa a nessuno (festival del cinema al Lido di Venezia, lungo la costa adriatica, pubblicazioni e spot noiosi, stand fieristici costosi come l'oro), spot anticarneficina del traffico che ha visto un aumento di morti e feriti sulle strade (under 35)". L'uomo che crede di essere Rodolfo Valentino, sogna di trovare sempre la soluzione giusta per tutte le stagioni, nonostante sappiamo che innumerevoli sue decisioni hanno contribuito allo spreco generalizzato. "Tanto - dicono i trevisani di piazza dei Signori - a noi interessa che la provincia sia la dependance del Comune e non viceversa. Ben vengano i provincialotti che si credono i sapienti, importante è che facciano i nostri interessi e poi se resta qualcosa anche per gli altri comuni". La Provincia di Treviso è un carrozzone che spende tanti soldi per niente, che si volatilizzano in "studi e progetti..., consulenze..." e "promozioni turistiche, enogastronomiche e fiere di prodotti in via di estinzione". "Che si occupi di Sant'Artemio e non della poltrona di Palazzo Balbi (Ndr, sede della Regione Veneto sul Canal Grande a Venezia)", un giorno non lontano chiosò lo sceriffo Gent. Ma come si sa, anche il nostro Rodolfo Valentino, pardon, presidente Luca Zaia, ha nel sangue l'ambizione di tutti: di diventare senatore e forse anche Ministro dei forestali, dei quadrupedi e di tutti gli asini.
Così la cronaca locale ha descritto la notizia che è girata abbastanza veloce in Tutt'Italia: "Mansueti asinelli al posto di inquinanti rasaerba per tenere puliti i cigli stradali. Come un agricoltore di cinquant'anni fa, il presidente della Provincia Luca Zaia si è alzato all'alba di ieri per raggiungere a Santa Lucia di Piave, il tradizionale mercato del bestiame, dove, con una lunga trattativa a suon di rilanci e strette di mano si è aggiudicato 6 asini. I quadrupedi, tutti italiani e di razza nana, costituiscono la prima mandria della Provincia che, grazie all'originale idea del presidente, persegue un doppio obiettivo: valorizzare gli animali da pascolo e contenere i costi per la pulizia delle strade: "Cominceremo - spiega Zaia - dalla variante di Postioma, 3 km di scarpate protette dai cavalcavia, per le quali spendiamo ogni anno 100 mila euro per lo sfalcio con i rasaerba. Gli asinelli saranno liberati durante il giorno, protetti da una recinzione elettrificata, e controllati da un operatore". I sei asinelli, acquistati con un prezzo "battuto" in 2.075 euro, sono una femmina gravida di sei anni, una mamma di 3 e il piccolo di un mese e mezzo, un'altra mamma di cinque anni con la piccola di 3 mesi e una femmina di tre anni. Se l'esperimento andrà bene, la Provincia lo estenderà ai 1500 km delle strade della Marca: "L'obiettivo - continua Zaia - è un progetto più ampio, in collaborazione con un'università. Naturalmente gli animali saranno utilizzati solo dove i cigli siano sufficientemente ampi per garantirne la sicurezza". Intanto gli asinelli saranno accuditi, fino a primavera, in un'azienda agricola di Cimadolmo dove saranno "battezzati" con i nomi suggeriti dagli scolari".
Precisiamo comunque che l'idea del presidente Luca Zaia non è geniale e nemmeno tanto consona al servizio richiesto. Poveri asinelli nani...costretti a fare da aspirapolvere. Il sistema di adoperare gli animali da soma per questo tipo di servizio è molto diffuso in Romania o in altri paesi dell'Est, dove del resto non ci sono sufficienti attrezzature e sulle loro autostrade non transitano centinaia di migliaia di autoveicoli come invece succede sulle strade della Marca. Già in Australia quarant'anni fa, si concedevano in affitto degli agnelli per tenere l'erba rasata dei prati delle case, altrimenti si pagava una multa. Gli agnelli venivano "affittati" dall'Ospedale pediatrico in primavera. Il presidente della sinistra Piave, i suoi collaboratori e i suoi amici più stretti (che tutti assieme da Celeste vanno sempre a sbaffo) hanno pensato solo al far notizia sotto Natale?
Ristesura del titolo e dell'occhiello: Zaia acquista sei asinelli per ripulire i fossati e le aiuole sempre sporchi di rifiuti e coperti di erbacce. Una spesa sostenibile che solo il presidente Zaia poteva inventarsi pur di prendere i voti dei contadini scontenti, quelli che ormai non mungono più le vacche, non coltivano più il fiore d'inverno e che non sanno più fare el Morlach (formaggio di malga).

fonte: http://www.aidanews.it/articoli.asp?IDArticolo=4710

vicepresidente del Veneto: Luca Zaia

A 200 km/h in autostrada, patente ritirata
bufera sul vicepresidente del Veneto

Luca Zaia attacca: "Cambiare i limiti di velocità, sono troppo bassi
Sono soglie anacronistiche che vanno elevate di 20 chilometri almeno"

ROMA - Ammette di aver spinto l'accelerato ben oltre il limite consentito. E spiega di averlo fatto per rispettare un impegno lavorativo. Sfruttando però l'occasione per rilanciare la sua battaglia politica: l'aumento del limite di velocità sulle strade. Il vicepresidente della Regione Veneto, il leghista Luca Zaia, sorpreso da una pattuglia della Polstrada a correre lungo l'autostrada A27 nei pressi di Conegliano (Treviso) a 193 chilometri l'ora, si è visto recapitare la multa da 407 euro e la notifica di ritiro della patente.

Ma il doppio colpo non ha intaccato le sue certezze. Anzi le ha rafforzate. "Bisogna assolutamente rivedere i limiti di velocità - dice il leghista - 50 chilometri l'ora nei centri abitati e 130 in autostrada sono soglie anacronistiche che vanno elevate almeno di 20 chilometri".

Anche perché, racconta Zaia, oltre al danno è arrivata anche la beffa. Al vicepresidente, infatti, non è andata giù la la battuta della pattuglia della Polstrada che lo ha bloccato: "Ma quelli come lei non girano con l'auto blu e l'autista?". Ma guai a ipotizzare che la sua iniziativa sia una "ritorsione" dopo la multa: "E' un'idea che ho sempre sostenuto". E che, spedendo una mail al sito www.lucazaia.eu, potrà essere sostenuta.

Queste le proposte del vicepresidente veneto: aumentare i limiti di velocità portandoli da 50 a 70 km/ora nei centri abitati e dai 130 ai 150 km/ora in autostrada, inasprire le pene per i trasgressori commutando la perdita dei punti in ritiro della patente. Infine, per chi guida in stato di ebbrezza, dice Zaia "dovrà essere imposto il carcere".

Ora l'esponente leghista dovrà invece ricorrere all'aiuto di amici e conoscenti che gli faranno da autisti improvvisati nel periodo in cui sarà senza patente. "Non mi preoccupo troppo - confessa il leghista - già stamattina ho ricevuto almeno 70 sms e altrettante e-mail di persone, molte delle perfette sconosciute, che si offrono di farmi da autista". Sperando che, almeno loro, rispettino i limiti di velocità.

(18 luglio 2007) fonte: larepubblica.it

VIVA L'ITALIA

ROMA - Gustavo Selva ci ripensa e rimane senatore. L'esponente di Alleanza Nazionale Gustavo Selva ha deciso di ritirare le dimissioni che aveva presentato dopo le polemiche di cui era stato al centro per aver utilizzato un'ambulanza, il giorno della visita di George W. Bush a Roma, in modo da poter arrivare in tempo negli studi di La7 e poter partecipare a una trasmissione televisiva.

"I cittadini mi invitano a restare e perciò ritiro le dimissioni - ha annunciato Selva nell'aula di Palazzo Madama - Assumo su di me la reponsabilità politica di ritirare le dimissioni presentate con lettera l'11 giugno. Lo faccio per rispetto vostro". "E' mio dovere - ha proseguito il senatore di An - e rispetto per voi. Se voi mi assolvete potrebbe sembrare la casta che si autodifende", ha detto Selva che ha parlato per oltre mezz'ora nonostante il presidente di turno, Roberto Calderoli, abbia minacciato più volte di togliergli la parola.

In aula, Selva ha anche raccontato la sua versione sull'episodio dell'ambulanza: "Ho cercato per 30 minuti con un agente di polizia di far arrivare un taxi almeno fino a ponte Cavour, ma invano. Il blocco per la presenza di Bush era ferreo". Inoltre, ha detto, "quelle concitate telefonate mi provocarono delle fibrillazioni cardiache e quindi sono stato messo sull'autoambulanza di Palazzo Chigi e sono andato all'Ospedale San Giacomo. Poi mi sono rapidamente ristabilito e mentre Palazzo Chigi mi proponeva una seconda auto, con l'autista dell'ambulanza si è deciso che fosse lui a portarmi a via Novaro", dov'era lo studio dell'emittente La7.

Il senatore di An ha quindi accusato il ministro della Sanità Livia Turco di aver detto il falso quando ha sostenuto che "il bilancio poteva essere più tragico se un'altra persona avesse avuto bisogno dell'ambulanza". "Questo - ha affermato il senatore di An - non poteva accadere perché l'ambulanza era a disposizione solo per chi si trovava a Palazzo Chigi".

Selva, dopo aver citato alcune e-mail piene di insulti che gli sono giunte in quei giorni ("maledetto ladro", "cane, si vergogni", "schifoso maledetto" e altre che ha letto per intero) ha detto che le accuse del ministro Turco lo hanno "addolorato, offeso, ma non meravigliato". "Vedo - ha proseguito - che il lessico vetero-comunista per infangare l'avversario politico resta duro a morire in una senatrice post-comunista".

Dopo aver ripercorso la sua carriera, prima come giornalista, e ora come parlamentare e dopo aver ricordato l'autoambulanza di Mussolini che fece storia, Selva ha ricordato di "non essere mai stato toccato da una sola accusa di corruzione, concussione, tangenti, associazione mafiosa o consumo di cocaina".

"Non dobbiamo commettere l'errore di cavalcare il tema dell'antipolitica. L'uscita dal Senato sarebbe una bella morte politica di un eroe per un giorno" ha aggiunto il senatore che verso la fine della sua arringa difensiva ha rivelato il motivo del ritiro delle sue dimissioni: "Un voto in meno del centrodestra al Senato è un giorno in più per il governo Prodi".

Fonte : www.repubblica.it

Non c'e' che dire.......al peggio non c'e' mai fine......
Memorabile poi la parte del suo "discorso" dove dichiara che se, ad "assolverlo", fossero' stati i suoi colleghi sarebbe sembrata l'autodifesa della casta.....questo e' anche andato oltre...si auto autoassolve.....macche' casta.....
Mi sorge spontanea una domanda....ma chi sarebbero quei cittadini che gli hanno chiesto di rimanere ??????????????E soprattutto perche' ??? (vaffanculo anche a loro)
shockshockshockshockshockshockshock
Poi la solita inqualificabile conclusione del solito inqualificabile esponente di una becera destra...se mi critichi sei un COMUNISTA !
Allora Selva senti : io non sono comunista...ma VAFFANCULO lostesso !

martedì 17 luglio 2007

Assenteisti in ospedale - Arrestati

PERUGIA - Dieci arresti per assenteismo all'ospedale Santa Maria della Misericordia a Perugia. Sono finiti in carcere o agli arresti domiciliari medici, docenti, infermieri e personale tecnico amministrativo. Secondo quanto si legge in una nota della Procura gli arrestati si allontanavano dal lavoro facendo timbrare il cartellino o il badge marcatempo da amici compiacenti. Tra gli arrestati, dipendenti dell'Azienda ospedaliera, un ex dipendente della stessa struttura e tre impiegati dell'Università degli studi di Perugia, tutti operanti presso l'ospedale perugino. Sono accusati di falso in atto pubblico e truffa aggravata. Gli arresti sono stati eseguiti stamani dai carabinieri del Nas. (17-07-2007)

lunedì 16 luglio 2007

Informazione all’italiana: dal corruttore al consumatore

15 Luglio 2007

Informazione all’italiana: dal corruttore al consumatore

Merda d'artista di Piero Manzoni
immagine di Piero Manzoni

Una sentenza della Cassazione ha condannato Previti, ormai record man italiano di pene aggiudicate, per la Mondadori.
Corruppe un giudice e la Mondadori finì, per la solita coincidenza, alla Mediaset.
La Mondadori va messa sul mercato, non può appartenere a chi l’ha ottenuta grazie alla corruzione.
Scusate: era una battuta... Non volevo mettere in difficoltà rutellifassinodalemabertinottidilibertoviolanteveltroni. Anche loro hanno diritto a tirare a campare, come tutti in questo Paese marcio.
Travaglio, l’informato sui fatti, ci spiega in dettaglio lo scippo del più importante gruppo editoriale italiano.

Previticristosocrate e il Cavalier Prescritto.
“Lunedì, per convincere la giunta per le elezioni della Camera a conservare la poltrona, lo stipendio e la pensione al suo cliente pregiudicato e interdetto Cesare Previti, l’avvocato Giovanni Pellegrino (che è anche ex senatore Ds e presidente Ds della provincia di Lecce) l’ha paragonato a Gesù Cristo e a Socrate. Venerdì Previti, in arte Socrate, in arte Cristo, è stato condannato definitivamente dalla Cassazione a 1 anno e 6 mesi nel processo Mondadori, in aggiunta ai 6 anni già totalizzati nel processo Imi-Sir (i 5 anni subìti in appello nel processo Sme-Ariosto cadranno a giorni in prescrizione grazie a un’altra sezione della Cassazione, che ha avuto la bella pensata di mandare il processo a Perugia proprio sul filo di lana).
Grazie a due leggi vergogna – la ex Cirielli e l’indulto – e a un regolamento-vergogna, Previticristosocrate non sconta la pena in carcere, ma a Montecitorio, anche se è provvisoriamente agli arresti domiciliari. Ma non è il suo destino l’aspetto più importante dell’ultima sentenza. E’ il contenuto, che ha accertato ormai definitivamente come andarono le cose nella “guerra di Segrate” che a cavallo degli anni 80 e 90 oppose la Cir di Carlo De Benedetti alla Fininvest di Silvio Berlusconi. Per una complicata controversia di accordi e pacchetti azionari, sia l’Ingegnere sia il Cavaliere sostenevano di essere i padroni della Mondadori, il primo gruppo editoriale italiano che controllava, oltre al settore libri, La Repubblica, l’Espresso, Panorama, Epoca e 15 giornali locali. Si affidarono dunque a un arbitrato super partes, che nel 1990 – col famoso “lodo Mondadori” - diede ragione a De Benedetti. Allora Berlusconi rovesciò il tavolo e impugnò il lodo dinanzi alla Corte d’appello di Roma. Questa, con una sentenza firmata dal giudice Vittorio Metta il 24 gennaio 1991, annullò il lodo e consegnò la Mondadori a Berlusconi. Per la gioia di Bettino Craxi, che spense così la principale voce di opposizione al regime del Caf. Mesi dopo, Andreotti costrinse Berlusconi a restituire una parte del maltolto (Espresso, Repubblica e giornali locali) al legittimo proprietario. Poi, nel 1995, grazie alle rivelazioni di Stefania Ariosto, il pool di Milano cominciò a indagare sulle sentenze comprate da Previti e scoprì che lo era pure quella del giudice Metta su Mondadori (come quella di tre mesi prima, firmata dallo stesso Metta, sull’Imi-Sir): all’indomani del verdetto, la Fininvest bonificò 3 miliardi di lire a Previti che, tramite altri due avvocati berlusconiani, fece arrivare 400 milioni in contanti a Metta. Il quale poi lasciò la magistratura, divenne avvocato, e indovinate in quale studio andò a lavorare con la figlia Sabrina? Ma nello studio Previti, ovviamente.
Berlusconi è uscito dal processo col solito grimaldello: attenuanti generiche e prescrizione del reato. Previti, Metta e gli altri due avvocati imputati (Pacifico e Acampora), invece, sono stati condannati per corruzione. Ma nella sentenza d’appello, confermata venerdì dalla Cassazione, si afferma che il Cavaliere aveva “la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio”. Del resto, “la retribuzione del giudice corrotto è fatta nell’interesse e su incarico del corruttore”, cioè dell’attuale capo dell’opposizione. Il quale, dunque, da 17 anni controlla e utilizza abusivamente una casa editrice e i suoi giornali per accumulare miliardi e consensi politici. De Benedetti gli chiederà, in separata sede civile, un risarcimento di 1 miliardo di euro. L’altra sera, a Rovigo, don Luigi Ciotti ha ricordato che nell’ultima finanziaria il governo ha approvato l’estensione del sequestro dei beni, finora previsto per i mafiosi, anche ai corrotti e ai corruttori. Sarebbe forse il caso di confiscare la Mondadori a colui che, nel 1991, la rubò. E di raccontare agl’italiani l’odore dei soldi e dei giornali del Cavaliere. Ma forse la seconda impresa è più ardua della prima: il Tg5 del neodirettore Mimun, venerdì sera, non ha dedicato nemmeno un servizio alla sentenza. E né il Corriere della Sera, né il Messaggero, né La Stampa ne hanno dato notizia in prima pagina. In fondo Berlusconi ha solo rubato il primo gruppo editoriale italiano a un concorrente: che sarà mai.”
Marco Travaglio


V-day:
1. Partecipa al V-day
2. Scarica il volantino
3. Inserisci le tue foto su www.flickr.com con il tag: Vaffa-day

fonte www.beppegrillo.it

venerdì 13 luglio 2007

A Roma chiesta una pena di quattro anni per Donatella Dini

La procura di Roma ha chiesto la condanna a quattro anni di reclusione di Donatella Pasquali Zingone, moglie dell' ex ministro Lamberto Dini, per bancarotta fraudolenta nell'ambito dell'inchiesta sul gruppo Zeta e in particolare sul crac di 40 miliardi di lire che ha provocato il fallimento della società "Sidema srl", avvenuto il 13 marzo 2002.

La richiesta è stata fatta giovedì dal pm Paolo Auriemma al processo nel quale, oltre a Donatella Zingone, è imputato, sempre per bancarotta, anche Italo Mari, componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della Sidema dal 26 gennaio al 1 luglio 1999.

Per quest'ultimo il rappresentante dell'accusa ha chiesto la condanna a tre anni e mezzo di reclusione. Un terzo imputato, Enrico Pozzo, amministratore della Sidema dal 26 gennaio 2000 al fallimento, ha già patteggiato una pena di due anni. I pm Paolo Auriemma contesta agli indagati di aver esposto nei bilanci che vanno dal 1994 al 2000, e nelle note integrative, fatti materiali non rispondenti al vero in modo da indurre in errore i destinatari della comunicazione.

In particolare, per i magistrati romani, negli esercizi 1999 e 2000 sarebbero stati esposti nell' attivo dello stato patrimoniale una posta del patrimonio netto denominata «Fondo riserva su partecipazione» per un valore di tre miliardi e 400 milioni di lire corrispondente alla partecipazione al 100 per cento nella società Innovation, acquisita per 300 milioni di lire e mai pagata. Inoltre, si contesta agli indagati, nell nota integrativa al bilancio 1999, di aver falsamente dichiarato che l'area di proprietà della società partecipata era «in procinto di essere concessionata dal comune di Castelnuovo di Porto».

Zingone, difesa dall'avvocato Vincenzo Siniscalchi, e Mari, assistito dall'avvocato Emilio Ricci, sono inoltre accusati di aver esposto nel bilancio 2000, nell' attivo patrimoniale, immobilizzazioni materiali per un valore di 11 miliardi di lire, superiore di sei miliardi e 800 milioni al valore risultante nell'esercizio precedente, operando una rivalutazione monetaria priva di giustificazione. Tali attività, per l'accusa, avrebbero provocato il dissesto della Sidema.

Interrogata nel novembre 2003, Donatella Dini, respinse tutte le accuse definendo l' inchiesta giudiziaria «una bolla di sapone». La sentenza dovrebbe essere emessa dalla decima sezione del tribunale di Roma il 30 ottobre prossimo.
Fonte

sprechi 5

Vittorio Feltri per cuccarsi i contributi dello stato alla stampa politica ha fatto figurare che Libero è l'organo ufficiale del Movimento Monarchico Italiano?

5 milioncini delle nostre tasse l'anno si porta a casa, il Feltri, mica male fare i soldi così.

Per non parlare di Giuliano Ferrara, (3,7 milooncini), il cui giornale è l'organo ufficiale della "convenzione con la Giuisrtzia".

Lo sapevate che il giornale banana "Roma", essendo l'organo del "Movimento Mediterraneo", si porta a casa 3 milioni di euro? E che "Il Giornale" è l'organo dei "Pensionati Vivi" ?



http://newrassegna.camera.it/chiosco...tArticle=5G6EK

sprechi 4

Frattini express con auto blu
Dal riservato nel numero in edicola questa settimana
Scena di ordinaria italianità sul volo Palermo-Roma di venerdì 27 aprile. L’ aereo strapieno dell’Alitalia atterra alle 21 a Fiumicino e sono già pronti due pullman per trasportare i passeggeri, ma i portelloni non si aprono e la gente comincia a spazientirsi un po’. Passa qualche minuto e dall’altoparlante si sente un breve quanto pudico annuncio: «Il signor Frattini è pregato di mettersi in contatto con il personale di cabina». Il signor Frattini altri non è che Franco, vicepresidente della Commissione europea con delega alla Giustizia e alla Sicurezza. Sentito l’annuncio, l’ex ministro forzista si fa prontamente largo, insieme all’elegante dama platinata con la quale ha viaggiato, e scende dalla scaletta. Ad attenderli c’è un’auto blu che risparmia loro la scomodità dell’autobus. Irriferibili i commenti di alcuni passeggeri, mentre il deputato ulivista Sergio Mattarella, gentiluomo d’altri tempi, scuote la testa candida in segno di disapprovazione. Mattarella, che insegna diritto parlamentare all’università, conosce bene diritti e doveri. Di privilegi, invece, sa poco. F. B.

Scorte

fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/P...7/stella.shtml

E il Cavaliere ereditò auto blu e superscorta In cinque anni per la flotta di «auto blu», 115 nell'autoparco di Palazzo Chigi, sono stati spesi 7 milioni di euro. Il boom dei voli STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO

Silvio Berlusconi (Emblema)
MILANO - Non si fidava, il Cavaliere, del suo successore. E così, mentre ancora stava a Palazzo Chigi in attesa di lasciare il posto a Romano Prodi, avrebbe deciso di darsela da solo, la scorta per il futuro: 31 uomini. Più la massima tutela a Roma, Milano e Porto Rotondo. Più sedici auto, di cui tredici blindate. Il minimo indispensabile, secondo lui, di questi tempi.
Un po' troppo, secondo i nuovi inquilini della Presidenza del consiglio. Che sulla questione, a partire da Enrico Micheli, avrebbero aperto un (discreto) braccio di ferro con l'ex-premier. Guadagnando finora, pare, solo una riduzione del manipolo: da 31 a 25 persone. Quante ne aveva il "bersaglio Numero Uno" Yasser Arafat, ricorda Massimo Pini, il giorno che andò a visitare Bettino Craxi. Certo, qualcuno ricorderà a Berlusconi quanto disse ai tempi in cui aveva deciso col ministro dell'Interno Claudio Scajola di tagliare il numero degli scortati. Tra i quali, come rivelarono mille polemiche e le intemerate di Francesco Saverio Borrelli, c'era anche il pm dei suoi processi, Ilda Boccassini, che si era esposta contro la mafia in Sicilia. Disse che per molti la scorta era "solo uno status symbol" usato "impropriamente, magari sgommando". E si vantò, giustamente, di aver sottratto alla noia di certe inutili tutele "788 operatori di polizia dirottati così in altri settori per garantire una maggiore sicurezza dei cittadini".
Né val la pena di ricordare che, ai tempi in cui le Br ammazzavano la gente per la strada e i politici erano esposti come mai prima, il presidente del consiglio Giulio Andreotti viaggiava con scorte assai più contenute: «Mia moglie a Natale faceva un regalino a tutti, e certo non erano molti». E' vero: è cambiato tutto. E la scelta di ridurre drasticamente le spese per proteggere gli ex-capi del governo fatta da Giorgio Napolitano quando stava al Viminale, appare lontana anni luce. Berlusconi è stato il premier che ha appoggiato fino in fondo Bush, ha schierato l'Italia nelle missioni in Afghanistan e in Iraq, si è battuto in difesa della sua idea di Occidente con una veemenza (si ricordi la polemica sulla "superiorità sull'Islam") che lo ha esposto non solo ai fanatici come quel Roberto Dal Bosco che gli tirò in testa un treppiede ma all'odio di tanti assassini legati ad Al Qaida. Garantirgli la massima tutela è un dovere assoluto. Punto e fine. Il modo in cui si sarebbe auto-confezionato questa tutela, invece, qualche perplessità la solleva.
Il 27 aprile, cioè diciassette giorni dopo il voto e prima che Romano Prodi si insediasse, la presidenza del consiglio stabiliva che i capi del governo "cessati dalle funzioni" avessero diritto a conservare la scorta su il tutto il territorio nazionale nel massimo dispiegamento. Altri dettagli? Zero: il decreto non fu pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» e non sarebbe stato neppure protocollato. Si sa solo che gli uomini di fiducia "trattenuti" erano 31. Quelli che con un altro provvedimento il Cavaliere aveva già trasferito dagli organici dei carabinieri o della polizia a quelli del Cesis. Trasferimento che l'allora presidente del Comitato di controllo sui servizi Enzo Bianco, appoggiato dal diessino Massimo Brutti, aveva bollato come "illegittimo". Scoperta la cosa all'atto di insediarsi come sottosegretario con delega ai "servizi" al posto di Gianni Letta, Enrico Micheli avrebbe espresso sulla faccenda l'irritazione del nuovo governo. E dopo una lunga trattativa sarebbe riuscito a farsi restituire, come dicevamo, sei persone.
Quanto alle auto, quelle "prenotate" dall'allora presidente sarebbero come detto 16, delle quali 13 blindate. Quasi tutte tedesche. Resta la curiosità di sapere se vanno o meno contate tra quelle del parco macchine di Palazzo Chigi. Così stracarico di autoblu che il grande cortile interno non può ospitarne che una piccola parte. Il resto sta in via Pozzo Pantaleo 52/E, una strada fuori mano alle spalle di Trastevere, nel quartiere portuense. Serve una macchina? Telefonano: "Mandate un'auto, per favore". Se non c'è traffico, una mezz'oretta. I ministri sparpagliati qua e là che fanno riferimento a Palazzo Chigi, non sono pochi: Linda Lanzillotta (Affari Regionali), Giulio Santagata (Attuazione del programma), Luigi Nicolais (Riforme e Innovazioni nella pubblica amministrazione), Barbara Pollastrini (Pari opportunità), Emma Bonino (Politiche europee), Vannino Chiti (Rapporti con il Parlamento) Rosy Bindi (Politiche per la famiglia) e Giovanna Melandri (Politiche Giovanili e Sport). Ma le autoblu a disposizione, comprese le due Maserati in dotazione a Prodi e Micheli, sono una marea: 115. E il bello è che sono già calate: fino al 17 maggio erano 124.
Costi? Una tombola. Nel solo 2005, per "acquisto, manutenzione, noleggio ed esercizio dei mezzi di trasporto nonché installazione di accessori, pagamento dei premi assicurativi e copertura rischi del conducente e dei trasportati, spese per permessi comunali di accesso a zone a traffico limitato", quel parco di autoblu ci è costato 2 milioni e 152 mila euro, 400 mila in più rispetto alle previsioni. Ai quali vanno sommati gli stipendi degli autisti, presumibilmente gravidi di straordinari. Un anno eccezionale? Niente affatto: la fine di una rincorsa. Nel 2001, per le stesse cose, erano stati spesi 940 mila euro. Nel 2002 un milione e 389 mila. Nel 2003 un milione e 322 mila. Nel 2004 un milione e 800 mila. Una progressione inarrestabile. Fatte le somme, dal 2001 al 2005 dalle casse di palazzo Chigi sono usciti per le autoblu 7 milioni 603 mila euro. Pari a 14 miliardi e 721 milioni di lire. Eppure, per i viaggi appena più lunghi, devono aver anche volato. Lo dicono i bilanci: per "noleggio di aeromobili per esigenze di Stato, di governo e per ragioni umanitarie e spese connesse all'utilizzo dell'aereo presidenziale" sono stati spesi nel solo 2005 due milioni e 150 mila euro. Il quadruplo del 2002, quando i voli della presidenza ci erano costati 577.810 euro. Sarà stata colpa del caro petrolio...
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

Sprechi 3

da Corsera dell'1 novembre 2006
«Collaboratori» e «cancelleria» Palazzo Chigi costa il 69% in più
Spese per lo staff del premier: durante il governo Berlusconi sono cresciute del 186%
di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella

«Dobbiamo tagliare», diceva Berlusconi. E le spese di funzionamento di Palazzo Chigi sono passate in pochi anni, nei «suoi» bilanci, da 214 a 302 milioni di euro. Fino a toccare nel 2006, secondo i conti ulivisti (ma la responsabilità va divisa: metà alla destra, metà alla sinistra) i 373 milioni.«Dobbiamo tagliare», dice Romano Prodi. Ma per le stesse spese prevede di tirar fuori nel 2007, nella «sua» Finanziaria, 17 milioni in più. Fino ad arrivare a 391. Pari a 757 miliardi di lire.
Per carità: è più cara la bolletta del riscaldamento, sono più cari i pieni di benzina, è più cara l'elettricità. Ma capire come le spese vive del «cuore» dello Stato si siano impennate del 69% oltre l'inflazione (13% complessivo) è arduo. Tanto più che i bilanci, come capita nelle società di quei faccendieri che non vogliono curiosi nei dintorni, sono tutt'altro che cristallini.
Una struttura pubblica trasparente deve avere bilanci trasparenti? Qui no. Prendiamo un capitolo: «Spese per acquisto di cancelleria, stampati speciali e ogni altro bene di consumo e/o strumentale necessario al funzionamento degli uffici, per il noleggio e la manutenzione di apparecchiature, attrezzature e restauro di mobili». Cosa vuol dire? Che ci fa il «restauro di mobili» con le matite e le gomme? E di quali «apparecchiature» si tratta? Computer? No, c'è una voce a parte. Anzi, nel bilancio 2005 addirittura tre. Capitolo 213: «Spese per l'installazione, la gestione e la manutenzione degli apparati tecnologici delle reti informatiche e di telecomunicazione»: 4.913.737 euro. Capitolo 913: «Spese per l'acquisto di beni e servizi informatici e telecomunicazioni durevoli»: 1.770.000. Capitolo 909: «Spese per lo sviluppo del sistema informatico e delle infrastrutture di rete»:10.693.383. Qual è la differenza? Boh... L'unica cosa certa è il totale: 17.377.120 euro. Quanto alle «spese di cancelleria», nel 2001 ammontavano a 1.043.242 euro, nel 2005 erano a 2.598.721.
Sono aumentati i dipendenti, quindi la necessità di penne e calamai? Nel faccia a faccia prima del voto, in polemica col Cavaliere, il Professore disse di sì: «Aveva detto che c'erano troppi dipendenti a palazzo Chigi. Erano 4.000 persone, oggi sono 4.200». In realtà, i numeri a bilancio sembrano dare torto a tutti e due. Non erano quattromila ma 3.548 (sulla carta) nel 2001, non sono 4.200 ma 2.974 (sulla carta) alla fine del 2005. Sulla carta, però. Perché esiste da sempre una tale girandola di «comandati», consulenti, provvisori vari da perdere la testa. La riprova? La spesa per il personale, che in base ai numeri appena dati avrebbe dovuto calare di circa un sesto (anche se i dirigenti con le destre al governo sono passati da 310 a 368) è in realtà aumentata, salendo da 76.653.739 euro del 2001 a 134.438.560 del 2005.
Il fatto è che tutto è molto complicato da decifrare. E che a Palazzo Chigi i consulenti (61 nel 2001, 136 nel 2005) e i collaboratori presi in prestito possono essere un esercito. Come quello a guardia di Berlusconi: vi sembrano tanti i 31 agenti che lui stesso si assegnò per quando non sarebbe più stato capo del governo? Allora ne aveva 81. Dei quali 11 (sei dipendenti del gruppo Mediaset, stando alle denunce della sinistra) erano stati assunti dal Cesis per chiamata diretta, scavalcando le regole che permetterebbero l'accesso ai «servizi» solo a chi è già poliziotto o carabiniere.
Quanto allo staff, ricordate cosa scrisse un cronista entusiasta dell'attivismo del Cavaliere? «Segreterie e collaboratori si alternano, con diversi turni, mentre il Cavaliere sembra l'omino delle pile Duracell. Chi scrive riesce a stento a girare lo zucchero nella tazzina del caffè, nello stesso tempo in cui il presidente fa almeno tre cose». Pareva una lisciatina: era un programma. Lo dicono i bilanci: nel 2001 le spese per pagare «gli addetti alle segreterie particolari del presidente, del vicepresidente e dei sottosegretari di Stato estranei alla pubblica amministrazione» (le persone portate da fuori) ammontarono a 1.882.248 euro. Ai quali andavano aggiunti altri 1.846.333 euro per il «trattamento economico accessorio per gli addetti agli uffici di diretta collaborazione del presidente, dei vicepresidenti e dei sottosegretari».
Totale: 3.728.581. Cosa significhino esattamente queste voci (cos'è il trattamento «accessorio»?) non è chiarissimo. È però chiaro che le stesse voci si sono impennate nel 2005 fino a 11.154.000 euro: 21 miliardi e mezzo di lire. Un aumento reale, al di là dell'inflazione, del 186%. Né è andata peggio al segretario generale e ai suoi vice: nel 2001 i loro stipendi pesavano per 320 mila euro, nel 2005 per 584 mila.
Per le altre curiosità, c'è da cogliere fior da fiore. Tutto legittimo, per carità. Ma colpisce, in questi anni di ristrettezze, che la Protezione Civile abbia speso nel 2005 solo 6 milioni per lo Tsunami (280 mila morti) e 15, quasi tre volte tanto, per «oneri connessi alle esequie del Papa e alla nomina del nuovo Pontefice». O che la stessa protezione civile abbia tirato fuori un milione di euro per «il grande evento relativo alla Conferenza episcopale di Bari».
Per non dire della magica stagione della società televisiva «Euroscena». Fondata venti anni fa «su imprescindibili valori cristiani» (così è scritto nel sito, dove si vanta insieme il quiz «Distraction» dove chi rispondeva bene aveva diritto a smutandarsi), fino al 2000 fatturava 2 milioni e mezzo di euro. Dal 2001 ad oggi è passata a 16.164.414. Wow! Merito del «genio» dell'amministratore unico, Davide Medici, un ignoto ragazzo di 22 anni? No, della Provvidenza, spiega in un'intervista il socio di maggioranza Luigi Sciò: «Ho tanta fede nella Provvidenza». Che nel suo caso, dicono i maligni, è bassina, ha i capelli trapiantati e la pelle liftata. Berlusconi, per Sciò, è «una persona amica», uno «che ha dato moltissimo alla televisione», un «grandissimo imprenditore», un «uomo veramente straordinario con una famiglia straordinaria». Una stima agiografica ma ricambiata.
Convinto che «Euroscena» sia il top, il Cavaliere le ha infatti delegato non solo la confezione dei filmati propri (dal vertice di Pratica di Mare al decennale di Forza Italia, poi girati alla Rai con relative polemiche) ma anche quelli di Prodi. Dopo una gara «informale» («motivi di segretezza»: sic) fatta poco prima di sgomberare da Palazzo Chigi ma con un contratto che sarebbe scattato il 19 maggio e cioè 40 giorni dopo le elezioni, ha affidato infatti alla società una serie di appalti a partire dal confezionamento tivù dei grandi eventi di palazzo Chigi anche per tre anni a venire. Cosa che al nuovo governo non è piaciuta tanto. Tanto più che, appena insediato, il Professore bolognese si è visto arrivare le fatture per tre avvenimenti «extra-canone» che avevano celebrato il predecessore. 1) La cerimonia per l'anniversario del volontariato civile. 2) L'udienza agli atleti paraolimpici a Villa Madama. 3) La cena a Villa Miani con gli esponenti del Partito Popolare Europeo venuti alla vigilia delle elezioni a spalleggiare il centrodestra. «Perché dobbiamo pagare noi, coi soldi dei cittadini, uno spot promozionale privato e partitico?», si sono chiesti gli attuali inquilini di palazzo Chigi. Tanto più che la fattura, per i tre servizi, era di 334.316 euro. Più di duecento milioni a botta.

15milioni di italiani sono indigenti o a rischio povertà

fonte eurispes,,,
oltre ai pensionati al minimo, ai precari si aggliunge ora l'inflazione tanto che negli ultimi decenni la perdita del potere di acquisto di salari e pensoni si aggira su in media del 20%,,,,,,,,,
mentre gli imprenditori continano a incrementare la loro quota di profitto ed a mandare i capitali nei paradisi fiscali.
I paradisi fiscali per gli imprenditori... certo... ma per "imprenditori" come berlusconi, benetton, tronchetti provera, e via discorrendo, non certo per il piccolo!!!

Prodi indagato dalla procura di Catanzaro

ROMA - Il premier Romano Prodi è indagato per abuso d'ufficio dalla procura di Catanzaro nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta "loggia di San Marino". L'iscrizione sulla lista degli indagati, per la procura, si tratta di un atto dovuto per permettere al presidente del Consiglio di chiarire i rapporti tra il premier e altri personaggi sotto inchiesta. L'indagine si riferisce a un presunto comitato d'affari tra San Marino e Bruxelles nel quale sarebbero coinvolte delle persone in qualche modo collegabili al premier. Ci sarebbe anche un'utenza telefonica intestata a Prodi alla quale le persone coinvolte si sarebbero più volte collegate. Il premier ha fatto sapere di non aver ricevuto nessun avviso di garanzia.

giovedì 12 luglio 2007

La nuova Tangentopoli

Nasce in Val di Susa

Un'intera valle in rivolta. Perché la superlinea e il supertunnel sono inutili: non ci sono né merci né passeggeri sufficienti a giustificare un'opera che costerà come quattro ponti sullo Stretto. Ma sono utili invece per distribuire appalti: a Marcellino Gavio, all'azienda di famiglia del ministro Lunardi. E alle cooperative rosse... di Gianni Barbacetto Il più grande scontro mai avvenuto in Italia tra interessi generali e interessi particolari. Tra i bisogni del Paese, anzi dell’Europa, e le richieste dei Nimby (“not in my backyard”), quelli che dicono: ovunque, ma non nel mio cortile. Questo è Valsusa, secondo la vulgata corrente. C’è da fare una grande opera utile per il Paese, anzi per l’Europa. Il più lungo tunnel ferroviario del continente. La meraviglia – nome in codice: Corridoio 5 – che permetterà di unire Lisbona a Kiev. La soluzione che passando sotto le Alpi ridurrà da quattro ore a un’ora e mezzo i tempi di percorrenza tra Torino e Lione. Ma di più: il miracolo che permetterà di togliere un fiume di camion inquinanti dalla strada e di convogliarli su rotaia; il portento che quadruplicherà le capacità della ferrovia. Di fronte a queste meraviglie, che dovrebbero far gongolare anche i verdi più verdi, un manipolo di oppositori si schiera invece inspiegabilmente contro, rifiuta il progresso, minaccia di fare le barricate. Nemici della modernità, Nimby, inguaribili egoisti: dal vescovo ai sindaci, dal presidente della Comunità montana all’ultimo dei valligiani. In questi chiari di luna, compito delle forze politiche responsabili, di destra e di sinistra, da Berlusconi a Fassino, è far capire che gli egoismi localistici non possono fermare i grandi progetti. Tutto chiaro, dunque, e fine dell’inchiesta vecchio stile. Ma è proprio così? No. Perché chi voglia capire senza preconcetti che cos’è l’Alpetunnel del Frejus, chi provi senza partito preso né preclusioni ideologiche ad addentrarsi nel mare di cifre, tabelle, disegni, cartine, progetti, rapporti, finisce per scoprire che l’operazione Valsusa è (anche) una grande manovra di disinformazione. Ma procediamo con ordine. Una valle paziente. Nimby? Venite qui a spiegarglielo, a quelli che in Valsusa ci abitano, che sono egoisti. Vivono da vent’anni in un cantiere. Ne hanno visti, di funzionari romani e di burocrati torinesi. Ne hanno sentite, di mirabolanti promesse. Hanno assistito al raddoppio della ferrovia (concluso nel 1977), che nei progetti doveva avere un traffico di 15 milioni di tonnellate di merci l’anno (mai raggiunto). Hanno visto crescere l’autostrada (aperta al traffico nel 1992), costruita nel loro fondovalle, ricavata nel letto della Dora. Hanno aspettato l’edificazione dei nuovi argini, che ancora non sono finiti. Hanno visto scavare le gallerie autostradali sul fronte di frana. Hanno subìto l’alluvione del 2000, perché il fiume si è alla fine vendicato. Hanno visto sorgere l’elettrodotto di Venaus. La centrale elettrica di Pont Ventoux. E hanno constatato che cos’è successo a Bardonecchia: l’unico Comune del Nord sciolto per mafia, perché i cantieri e i subappalti all’italiana hanno portato la ’ndrangheta al potere, con seguito di richieste di pizzo e traffici di eroina e cocaina e occupazione delle istituzioni. Con tutto ciò, alcuni abitanti della Val di Susa stanno ancora aspettando i rimborsi degli espropri compiuti vent’anni fa per tracciare l’autostrada: molti soldi non sono ancora arrivati... Ne hanno viste di cose, ne hanno sentite di promesse, ne hanno conosciute di facce di bronzo. E oggi non si fidano più, racconta Claudio Giorno, ambientalista e sindacalista, per anni considerato troppo verde dai rossi e troppo rosso dai verdi. Aggiungeteci un piccolo particolare: nell’area tra Borgone e Bussoleno, dove dovrebbe essere costruito l’interscambio tra la vecchia e la nuova linea ferroviaria, continua a funzionare la Beltrame, un’acciaieria di seconda fusione, che ricicla cioè rottame e materiali ferrosi e che provoca tassi d’inquinamento (e di mortalità) tra i più alti d’Italia. È un giocattolino che pesa sull’ambiente 80 volte l’inceneritore di Brescia. E che libera nell’aria non soltanto diossina (prodotto dalla combustione), ma anche Pcb: da dove viene questo veleno? Non certo dal ferro: ma allora qualcuno sta facendo il furbo e usa la vecchia Beltrame per smaltire rifiuti proibiti? Questa però è un’altra storia e un’altra inchiesta. Ma la pazienza dei valsusini è una, e i loro polmoni solo due. Come stupirsi se si allarmano quando vengono a sapere che, oltre alla diossina e al Pcb, nel loro cielo potrebbe arrivare anche l’amianto? A Balangero c’è la più grande cava d’amianto a cielo aperto d’Europa, ora naturalmente inattiva. Ora si viene a sapere che i detriti di scavo estratti dalle montagne (lo “smarino”) saranno oltre 15 milioni di metri cubi: come dieci piramidi di Cheope. Dove metterle? Anche perché, secondo uno studio ufficiale dell’università di Siena, potrebbero contenere significative quantità d’amianto: “La possibilità che si verifichino condizioni di rischio sanitario è assolutamente rilevante”, scrive l’oncologo Edoardo Gays dell’Azienda ospedaliera San Luigi d’Orbassano. L’amianto potrebbe infatti finire per essere disperso nell’aria. Infine c’è l’uranio. Il cuore della montagna che, in futuro, sarà trivellata è radioattivo. Ma qui siamo fin troppo avanti. Meglio tornare al presente.

Una linea (abbastanza) inutile.
La nuova linea ferroviaria del Frejus è una superopera che inizia a nord di Torino, imbocca la Valsusa, scompare per due volte nella montagna, ad Alpignano e a Bussoleno, con due gallerie (di 21 e 12 chilometri). Poi vola sul viadotto di Venaus, per infilarsi infine nel supertunnel, quel “tunnel di base” di 53 chilometri che sbuca in Francia, a Saint Jean de Maurienne. Poi altre due gallerie sul versante francese, Belledonne e Chartreuse, portano la linea a collegarsi con l’alta velocità che arriva a Lione. Il tutto costa come quattro ponti sullo Stretto di Messina. Spiega Andrea Debernardi, di Polinomia, consulente della Comunità montana della Valsusa: il preventivo è di 2,4 miliardi di euro per la tratta nazionale italiana, 6,7 per il “tunnel base”, 6,1 per la tratta nazionale francese. Totale: 15,2 miliardi di euro. Previsione dei tempi di realizzazione: 15 anni. Ma in letteratura, spiega il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, costi e tempi si dilatano almeno del 20 per cento. Viste le prevedibili difficoltà, la superlinea potrebbe costare una ventina di miliardi di euro ed essere pronta, se tutto andrà bene, nel 2023. Finché non sarà posata l’ultima traversina, la ferrovia sarà solo un costo, senza apportare alcun beneficio almeno parziale, senza poter aver alcuna utilizzazione intermedia. E poi che cosa succederà? Il tunnel sotto la Manica è costato meno, 13 miliardi, ed è fallito non una, ma due volte. Per mancanza di traffico. E serve a unire Parigi e Londra, non (con tutto il rispetto) Torino e Lione. La superlinea che scavalcherà le Alpi è del tutto sovradimensionata, rispetto ai bisogni. Potrebbe convogliare su rotaia merci addirittura per 100 milioni di tonnellate l’anno, con previsione di farne passare 40 milioni: ci vorrebbero 350 treni al giorno, uno ogni quattro minuti, alla velocità di 120 chilometri all’ora, alternati a treni passeggeri da 220 chilometri all’ora. Così il gioco varrebbe forse la candela. Peccato però che il traffico ferroviario transalpino sia in calo costante dal 2000, fatta eccezione per il Sempione e il Gottardo. Dal Frejus oggi passano merci per appena 7 milioni di tonnellate l’anno (erano 10 milioni nel 1997) e non c’è alcun segnale di svolta, né realistiche previsioni di una crescita così vertiginosa. Gli scambi Italia-Francia sono da lungo tempo consolidati, sono un business maturo in cui non si prevedono nuovi, clamorosi sviluppi. Del resto è già in corso il potenziamento della linea esistente che porterà a triplicare la sua capacità, fino a oltre 20 milioni di tonnellate: a che cosa servirà, allora, la nuova linea? E comunque, perché far arrivare le merci dalla Francia a 120 chilometri all’ora, quando poi, arrivate in Italia, si fermerebbero in qualche stazione e riprenderebbero la velocità media nazionale per i treni merci, che è di 19 chilometri all’ora? E poi il 70 per cento delle merci che ora passa dal Frejus non corre lungo la direttrice est-ovest, ma quella nord-sud: vanno e vengono da e per Digione, Bruxelles, Londra. Su questa direttrice, le nuove linee svizzere del Gottardo e del Sempione sono più competitive. Quanto agli scambi continentali sull’ipotetica linea Lisbona-Kiev, tranquilli: si spinge tanto sulla Val di Susa come se da essa dipendessero per intero le gloriose sorti e progressive dello sviluppo continentale, ma a est di Trieste non si mette giù neppure un metro di rotaia. Niente paura, dicono i fautori della Grande Opera: non ci sono solo le merci, ci sono anche i passeggeri. E così la linea nata come “alta velocità” per i passeggeri e poi diventata “ad alta capacità” per le merci ridiventa magicamente una linea “ad alta velocità” capace di spostare le persone lungo il mitico “Corridoio 5”. Ma la grande corsa Lisbona-Kiev sarà difficile da fare, non foss’altro per il fatto che le ferrovie spagnole hanno uno scartamento diverso dal resto d’Europa. “E poi l’alta velocità c’è già. E non costa un centesimo allo Stato: si chiama Ryan Air”, taglia corto il professor Marco Ponti. “Un biglietto aereo low cost ha un prezzo inferiore ai biglietti ferroviari, ma soprattutto non richiede denaro pubblico, quello che le ferrovie invece inghiottono in dosi pantagrueliche”. Difficile infine poter definire “ad alta velocità” una linea quasi tutta in galleria, intasata dai treni merci, che correrà non a 300, ma al massimo a 120 chilometri all’ora. Alla fine, come dimostra Debernardi, la tanto sbandierata “alta velocità” tra Lione e Torino farà risparmiare soltanto un’oretta. Anche perché – udite udite – per poter entrare in Torino i treni veloci dovranno correre non sulla nuova superlinea, ma sulla vecchia ferrovia già esistente. In compenso, il nodo torinese entro cinque anni scoppierà. Anche Milano non sta benissimo quanto a sistema dei trasporti. Ma per risolvere il problema Torino e il problema Milano non ci saranno soldi: tutti impegnati nel supertunnel che piace tanto al ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi.

Treni? No, tunnel.
L’architettura societaria per fare l’Alpetunnel è un’invenzione che supera perfino quella dell’alta velocità o del ponte sullo Stretto, con apparenza privata e soldi tutti pubblici. Per il nuovo Frejus si sono alleate le ferrovie francesi (Rff) e quelle italiane (Rfi) che insieme, al 50 per cento, hanno costituito la Ltf, Lyon Turin Ferroviaire, con il compito di progettare la superlinea e appaltare i lavori. In questo caso non hanno fatto neppure finta di tirare in ballo investimenti privati, project financing, redditività futura: paga Pantalone e basta. Con quali soldi, visti i conti dello Stato, resterà un mistero. Ma l’importante è mettere in moto la macchina dei finanziamenti, che poi si autoalimenterà. A nessuno interessa veramente il risultato, che arriverà (forse) tra vent’anni. “Treni? Qui non si parla di treni, ma di tunnel”, ripetono i funzionari delle ferrovie. L’importante è scavare, e cominciare il più presto possibile. Aprire cantieri. Far girare i soldi. Oggi, subito. Che cosa importa che il tunnel sotto la Manica sia già fallito due volte? E che l’Alpetunnel (200 chilometri complessivi) costi 15 miliardi di euro, mentre il molto più utile Gottardo (270 chilometri) ne costi solo 12? In tutto ciò, Ltf è il Pantalone che pagherà. Un Pantalone asimmetrico: benché il controllo della società sia al 50 per cento dei francesi e al 50 per cento degli italiani, per decisione presa da Lunardi gli italiani pagheranno di più, il 63 per cento della tratta internazionale (4,2 miliardi) più l’intera tratta nazionale (2,4 miliardi), per un totale di 6,6 miliardi di euro; eppure la supergalleria è solo 8 chilometri in territorio italiano e 45 in suolo di Francia. Ma che importa? A incassare, tanto per cominciare, sarà la Rocksoil della famiglia Lunardi, incaricata dei “sondaggi” (le prime trivellazioni) in Francia: così sarà ipocritamente aggirato il conflitto d’interessi del signor ministro delle Infrastrutture. In Italia incasserà la Cmc di Ravenna, già pronta a iniziare i “sondaggi” sul territorio nazionale. Con la Cmc, cooperativa rossa, la Grande Opera diventa bipartisan. Benedetta anche dai vertici dei Ds, da Piero Fassino in giù, fino all’uomo degli affari della Quercia a Torino, il molto attivo capogruppo alla Provincia Stefano Esposito. E benedetta malgrado la fiera opposizione dei diessini della Valsusa, sindaci compresi e con in testa Antonio Ferrentino, presidente della Comunità montana Bassa Valle di Susa. Ma, del resto, responsabile nazionale delle Infrastrutture per i Ds è quel Cesare De Piccoli che fu indagato e processato (e poi salvato dalla prescrizione) per aver incassato mazzette dalla Fiat, ai bei tempi di Tangentopoli, sui conti Accademia, Carassi, Linus... Costi (tanti) e benefici (pochi). Dunque il (poco) tempo risparmiato dai (pochi) passeggeri non giustifica un investimento così massiccio. Il promesso incremento delle merci che potranno essere trasportate con i treni non combacia con previsioni attendibili su un reale aumento delle merci da trasportare. Che cosa resta, allora, della grande impresa? Ci saranno grandi benefici ambientali, ribattono i sostenitori del tunnel, perché le merci potranno passare dai camion (inquinanti) al treno. Illusione, sostiene più d’uno studioso. Il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, consulente dei comitati NoTav, ricorda che in Italia soltanto il 17 per cento delle merci viaggia su rotaia e la quota non è purtroppo molto incrementabile. Per spostare piccoli numeri dalla gomma al ferro, bisogna sopportare costi pubblici immensi. Le ferrovie, del resto, nel loro complesso sono costate in 15 anni all’Italia quanto il Progetto Apollo agli Stati Uniti. E non abbiamo mandato nessuno sulla Luna. Marco Ponti taglia corto: “La ferrovia è una tecnologia dell’Ottocento, è ottima per trasportare per lunghi tratti merci pesanti, che produciamo sempre meno, o grandi numeri di passeggeri nelle aree metropolitane; legname, non microchip o abiti di Armani. E poi ha bisogno di immensi finanziamenti dello Stato, che oggi non ci sono più. Ora, invece, varrebbe la pena di ridurre le emissioni differenziando i pedaggi e le tassazioni per i camion: far pagare molto quelli che inquinano di più, così da rendere economico il rinnovo del parco mezzi circolante. Così il beneficio ambientale sarebbe diffuso, non limitato a una sola tratta. Se proprio poi si volesse aumentare la capacità di trasporto merci, allora converrebbe realizzare il raddoppio del tunnel stradale del Frejus: costa un decimo e le emissioni possono essere ridotte con i pedaggi fortemente differenziati”. Non ci saranno neppure grandi benefici occupazionali: lo scavo di tunnel è un lavoro ormai molto automatizzato. “Si metterebbe molto di più in moto l’economia e l’occupazione con un grande piano di ristrutturazione delle periferie urbane”, valuta Ponti.

I furbetti del tunnellino.
Tangentopoli ci ha insegnato che quando girano soldi pubblici, spesso c’è chi ne approfitta. L’alta velocità è la Tangentopoli del futuro, prevedeva in un suo libro, qualche anno fa, lo studioso bolognese Ivan Cicconi. Il futuro è già qui, anche se ancora non conosciamo nei particolari il nuovo sistema della corruzione. Conosciamo però il curriculum di alcuni degli uomini impegnati nella grande festa dei tunnel e delle linee ferrate. Di Lunardi, ministro e progettista, sono pubblici i coinvolgimenti nei lavori (mediante società di famiglia), anche se la Ltf li nega decisamente. Alcune inchieste giudiziarie, poi, evidenziano l’attivismo negli appalti di Ugo Martinat, esponente di An e viceministro delle Infrastrutture, gran burattinaio degli affari piemontesi ora indagato per turbativa delle gare per la Torino-Lione, oltre che per i Giochi olimpici. L’inchiesta sta evidenziando la regia discreta, negli appalti sabaudi, del costruttore Marcellino Gavio, attorniato da una cupola di ex funzionari di una delle sue aziende, la Sitaf, che oggi hanno fatto carriera in proprio e da democristiani o socialisti si sono “riposizionati” in area An. Le intercettazioni telefoniche realizzate dalla Guardia di finanza svelano i retroscena dei maneggi compiuti da questi ex uomini di Gavio, tra cui Vincenzo Procopio, oggi titolare della Stef, la società che ha progettato l’autostrada Torino-Bardonecchia, Walter Benedetto, responsabile della direzione lavori di Ltf, e Gianni Desiderio, del comitato direttivo dell’Agenzia olimpica. Non sospettando di essere intercettati, parlano tra loro e con Paolo Comastri, numero uno italiano della società mista Ltf: chiacchiere tutte da verificare, da furbetti del tunnellino. Desiderio, per esempio, racconta al telefono che la società Stone è del ministro (vorrà dire Lunardi?) e che si è alleata con l’Alpina di Milano, una “scatola vuota” che sarebbe stata messa in campo da Gavio: “Ci ha fottuti, vi ha fottuto”, dice Desiderio a Benedetto. Procopio, che nelle conversazioni telefoniche viene definito “il cassiere di Martinat”, s’arrabbia nei confronti di Gavio, lo sospetta di brogli nelle gare e progetta di far arrivare contro di lui interpellanze in Parlamento. Poi lo va a trovare, si tranquillizza e il giorno seguente spiega la situazione a Benedetto. Infine riferisce a Desiderio “di aver appreso dai comuni amici della Metropolitana milanese che non è stato fatto un bel lavoro e che si aspettavano un aiuto più concreto”. Prosegue il rapporto dei finanzieri: “Vincenzo (Procopio) aggiunge che “serve una botta” e si rende necessario “fare un intervento”. Gianni (Desiderio) gli dice di andare a parlare con Walter (Benedetto), dato che lui è il presidente della commissione, per verificare se è necessario intervenire presso Comastri, per poi passare la cosa a Ugo (Martinat)”. Quando Benedetto riferisce a Martinat che teme grane giudiziarie “per il cantiere di Modane” e lo informa che c’è di mezzo la Rocksoil della famiglia Lunardi, Martinat risponde: “Uh, cacchio!”. E poi: “Vabbe’, pazienza, nella vita non si vince sempre...”. Comastri e Benedetto brigano per far vincere a Procopio la gara d’appalto per la “discenderia” di Venaus (una delle gallerie d’accesso ai tunnel). Quando appare ben piazzata, invece, la società Geodata, i due sospendono la gara: “Geodata ha la maglia rossa, è vicina alla sinistra”. La Guardia di finanza va allora nella sede di Ltf a sequestrare i documenti dell’appalto, ma i due li fanno sparire: “Li mandiamo su a Chambery”. Comodo, lavorare alla frontiera. Dalle intercettazioni emerge una certa arietta d’intese bipartisan per gli appalti ferroviari e stradali piemontesi, con Gavio ben introdotto anche negli affari che dipendono da Comune, Provincia e Regione, tutti di centrosinistra. Ma in questa storia d’appalti di rito sabaudo spunta anche l’ambasciatore Umberto Vattani, che ha contribuito a definire in sede internazionale l’architettura societaria per la gestione della Torino-Lione. E spuntano anche alcuni protagonisti della vecchia Tangentopoli. Quell’Ercole Incalza che fu travolto dallo scandalo di Lorenzo Necci (a lungo numero uno delle Ferrovie italiane), ma che fu poi subito riciclato nientemeno che come responsabile del gruppo Economia della commissione intergovernativa italo-francese che ha preparato l’iter per l’approvazione del supertunnel da parte dei rispettivi governi: oggi Incalza è consigliere del ministro Lunardi e membro del “gruppo Van Miert” in sede Ue. E quell’Emilio Maraini che insieme a Incalza fu il dirigente Fs più vicino a Necci, per anni numero uno della Italfer, la società incaricata della progettazione e della vigilanza sull’alta velocità. Nel 1993 Maraini fu arrestato a Milano dal pool Mani pulite e negli interrogatori ammise le tangenti pagate come amministratore delegato di Ansaldo Trasporti per partecipare ai lavori delle metropolitane di Roma e di Milano. Poi, con un paio di rinvii a giudizio sul groppone, fu messo da Necci al vertice dell’Italfer, finché finì di nuovo in cella, nel 1998, per ordine dei magistrati di Perugia, in una delle tante inchieste sull’alta velocità. Forte di questo know-how, oggi Maraini è consigliere di Lunardi per gli affari internazionali. Martinat e Gavio sospendono ogni conflittualità e fanno fronte comune quando si tratta di pretendere soldi pubblici. Martinat: “Tremonti vuol tagliare le spese. Noi sosteniamo la tesi opposta, bisogna sfondare ulteriormente. Andiamo a Bruxelles e diciamo affanculo... Abbiamo bisogno di soldi da investire quest’anno, il prossimo e quello seguente, se vogliamo vincere le elezioni! Secondo Tremonti, questo ministero dovrebbe spendere il 10 per cento in meno in strade, ferrovie eccetera”. Gavio: “Roba da matti!”. Così si decidono le grandi infrastrutture e le sorti del Paese. Le teste calde della Valsusa sono avvisate: non fermeranno il Progresso.

http://www.societacivile.it/primopiano/articoli_pp/tav.html

LORENZO NECCI

UNA FONDAZIONE IN MEMORIA DI LORENZO NECCI, EX NUMERO UNO DELLE FERROVIE
FRANCESCO COSSIGA SHOW: “I GRANDI UOMINI FANNO SEMPRE DELLE MORTI BANALI”
PRIMA REPUBBLICA PRESENTE: LETTA, CASINI, DE MICHELIS, GAMBERALE E MORETTI



Foto di Umberto Pizzi da Zagarolo

Carlotta De Leo per il “Corriere della Sera – Roma”
Foto di Umberto Pizzi da Zagarolo


«Un paese dove esistono più di 160 mila leggi non può avere un'economia di libero mercato. L'Italia deve fare un salto di qualità culturale e di sistema e l'innovazione deve partire dalle reti di comunicazione». Lorenzo Necci, allora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, rispose con queste parole a Michele Santoro durante una trasmissione televisiva del lontano 1995.

Affermazioni che suonano quanto mai attuali e che dimostrano la lungimiranza del manager dello Stato rimasto a lungo anche a capo della Enichem - che considerava il profitto «un improrogabile obiettivo dell'azienda pubblica». Per dare continuità al pensiero di Necci, morto tragicamente nel maggio dello scorso anno, è nata un fondazione.

«Abbiamo deciso di ricordare mio padre - ha detto la figlia Alessandra - con uno strumento a disposizione della comunità scientifica. Non volevamo realizzare un semplice album di famiglia ma dar vita a un progetto che approfondisse la sua figura di manager e le sue idee "futuribili" e strategiche della politica italiana».

Per la presentazione ufficiale, a Palazzo Altieri si sono riuniti ieri - giorno di nascita dell'imprenditore originario di Fiuggi - un gran numero di amici di lunga data, provenienti dal mondo della politica e degli affari. Da Francesco Cossiga a Gianni Letta, da Pier Ferdinando Casini a Gianni De Michelis, da Mario Baccini a Vito Gamberale, da Gianluigii Da Rold a Mauro Moretti.

«Eravamo grandi amici - ha ricordato Cossiga, presidente onorario della nuova Fondazione - . Ci conoscevamo a fondo e per questo posso dire che Lorenzo Necci è nato troppo presto. Ha anticipato i tempi parlando di globalizzazione e integrazione. Sarebbe stato un ottimo politico se non avesse guardato al dopodomani in un periodo in cui in Parlamento si affrontavano solo le urgenze».

«Gli insegnamenti di Necci sono ancora attuali - ha aggiunto Letta -. Produttività, finanza pubblica, nuova architettura istituzionale e questione morale: sono queste ancora oggi le quattro sfide da affrontare per la modernizzazione del nostro Paese».

1 - COSSIGA SHOW: “I GRANDI UOMINI FANNO SEMPRE DELLE MORTI BANALI”…
Pierre De Nolac per “Italia Oggi” - (…) Ovviamente non è mancato lo show dell'ex capo dello stato, che ha ricordato a modo suo il valore dell'ex numero uno delle Ferrovie: «i grandi uomini fanno sempre delle morti banali, non sono come coloro che vengono ricordati solo per il tragico eroismo della loro fine, che nobilita una vita normale». E ha rivelato il sogno di quando era bambino: diventare un religioso. «Vista la mia ambizione, puntavo a essere un gesuita», ha dichiarato. Nella sala, intanto, si distribuivano copie del mensile L'Osservatorio Ferroviario, sottolineando la presenza di un articolo dedicato alla fondazione, e il sostegno dell'attuale a.d. delle Ferrovie, Mauro Moretti, a uno «strumento di progetto a disposizione della comunità scientifica ed economica».


fonte: Dagospia.com 12 Luglio 2007

LORENZO NECCI Il FOGLIO 9-11-14 aprile 1998 Roma.
Quella sera aveva visto giusto. Ma per una volta invece di fidarsi del suo proverbiale fiuto diede ascolto ai collaboratori. E, come sempre, alla sua infinita vanità. Chissà se ci ripensa, oggi, Lorenzo Necci. Era il 18 dicembre 1994. Il premio Galileo-manager dell'anno, quella sera l'ha ritirato e ora può uscire da casa sua solo per incontrare i pm di Milano, Perugia, Brescia. Quel premio, più che un premio era una jattura. Un avviso di un avviso di garanzia. Non c'è stato "manager dell'anno" che non sia successivamente caduto in disgrazia, inquisito, processato. Anche Lorenzo Antonio Necci, manager dell'anno 1994, è caduto in disgrazia. Sapeva di questa fama. Ma per uno che è passato indenne attraverso la rivoluzione italiana, ha svolto un ruolo chiave nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, che cosa volete che sia un premio con la fama di menagramo? Eppure è finita così.
Necci l'aveva scampata bella fino al settembre 1996. Tra i grandi manager di Stato è stato uno dei pochi a essere uscito pulito da Mani pulite. Anzi a non esserci entrato per niente. La mattanza all'Eni e il tangentone Enimont non l'hanno nemmeno scalfito, nonostante accuse circostanziate e incarichi di alta responsabilità. Se ne è fatto vanto e la sua fama si è ingigantita di pari passo con il mistero che lo circonda. L'amico e dispensatore di quattrini, Chicchi Pacini Battaglia, è stato beccato mentre diceva di averlo salvato dall'Inchiesta. Lui andava avanti. Fs, candidature a ogni posto di potere, sia nella prima sia nella seconda repubblica. Era l'uomo dei progetti, delle infrastrutture, della globalizzazione, secondo alcuni anche della massoneria. Per i francesi era l'ami italien. Tutti se lo contendevano e si vantavano della sua amicizia. A casa sua stava per compiere il capolavoro: le larghe intese, svanite per un soffio.
Ora non trova più nessuno che racconti quanto era bello la sera andare in Via Donizetti. L'appartamento pariolino è piantonato, Necci è lì, agli arresti domiciliari, forse ancora per poco. Tra una memoria difensiva e l'altra, ricorda. E scrive. Non è più il tempo dei saggi sul sistema Italia né tantomeno quello della poesia. L'idea gli è venuta in carcere, la prima volta. Poi nella sua villa di Tarquinia. Il progetto ha cominciato a prendere corpo quando, finalmente, è riuscito a trovare il tempo per coltivare le rose del suo giardino. Ha preso appunti. La scrittura è minuta, le pagine fitte. Ha ricopiato tutto al computer. Un giorno diventerà un libro. Non svela segreti, non accusa nessuno, non trascina nell'inferno giudiziario gli amici di ieri, i nemici di oggi. Per quello ci sono le aule giudiziarie, le strategie difensive, le convenienze reciproche. Si chiede solo da dove può cominciare il racconto della sua vita, che poi è il racconto di trent'anni di vita non solo sua. Si affida alla memoria, va avanti per flash, procede per episodi, istantanee. Nasce il "principe rinascimentale"
E' caduto da presidente delle Ferrovie, è nato da un ferroviere e da una casalinga di Fiuggi il 9 luglio del 1939, ultimo di quattro figli. L'infanzia è uguale a mille altre, la guerra e il dopoguerra consentono solo una vita semplice e povera. Né lui, né il fratello Umberto (albergatore, grande avversario a Fiuggi di Giuseppe Ciarrapico) si immaginano quanta strada faranno da grandi. La svolta è il liceo, il Classico Conti Gentili di Alatri. Lì Necci coltiva la passione umanistica che diventerà la sua cifra, l'arma che userà per ammaliare i suoi interlocutori. Lì comincia a rappresentare se stesso come "un principe rinascimentale". Lì il giovane figlio e fratello di ferrovieri studia da Lorenzo il Magnifico. A ventidue anni è dottore in legge, tesi in diritto amministrativo con Massimo Severo Giannini, non uno qualsiasi. Studia cooperazione internazionale, programmazione economica, politiche di sviluppo del Sud con Claudio Napoleoni. Ma che fare da grande, si chiede? Passano tre mesi dalla laurea e già può contare su tre proposte di lavoro: i colloqui con la Fiat, con l'Olivetti e con l'Eni vanno bene ma preferisce seguire Giannini fino al 1965. Assiste il professore in Università e nelle attività forensi, per le grandi aziende c'è tempo. E una via più diretta: la politica. Sono gli anni dei sogni del centrosinistra, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, le riforme, le Regioni. Fiuggi è una roccaforte repubblicana, uno dei fratelli di Necci è un militante del partito dell'edera. Il giovane Lorenzo si fa notare. Nel 1965 un "cacciatore di teste" lo segnala a una multinazionale belga, la Sofima del gruppo Societé Génerale. Segue per cinque anni gli affari legali, viaggia, coltiva amicizie, tesse relazioni, vive a Parigi il maggio francese e viene a contatto con l'establishment gaullista.
Ma il sacro fuoco della politica lo scalda. A Roma è amico di Adolfo Battaglia, allora direttore della Voce repubblicana, che lo presenta al leader Ugo La Malfa. Il partito romano era in mano a Oscar Mammì, fautore di una linea per l'unità della sinistra. La Malfa preferisce guardare verso la Democrazia cristiana e tentare di conquistare il Psi all'area di governo. Necci già allora era Necci. Sta con La Malfa (che era il capo), conia per lui lo slogan dell'Altra sinistra per distinguere la politica di sinistra del Pri da quella socialista, socialdemocratica e comunista. Ma si fa eleggere segretario regionale del Lazio con l'apporto decisivo di Mammì, oltre che di Battaglia e La Malfa. Insomma, già trentenne, comincia a piacere a tutti e sembra non sbagliare una mossa. Non è un politico di professione, è la sua attività di manager che gli dà da vivere. Nel 1970 fonda la Tpl, la società che corre alla stessa velocità della sua fortuna.
L'attività politica però lo soddisfa. Comincia a far parte della ristretta ed elitaria cerchia di Ugo La Malfa. Frequenta la sua casa di via Cristoforo Colombo, sopporta le proverbiali arrabbiature del leader. Ne diventa l'ombra. Fa lunghe partite a scopone con il capo e spesso lo lascia vincere. Necci ama raccontare questo rapporto come l'incontro tra un anziano leader politico e un giovane manager che si interessa di politica solo perché ha nel cuore il suo paese. Ma non è così. Necci è un politico. Colto e preparato, ma resta un politico, anche se continua l'attività professionale. Nella prima repubblica, molti uomini Pri si sono occupati di tv, Giorgio Bogi alla Vigilanza e Mammì alle Poste. Necci era uno di questi. Sembrava fosse già pronto un posto nel Cda Rai. Ma non arrivò mai. L'avventura elettorale
Tenta anche l'avventura elettorale, ma la candidatura al Consiglio regionale del Lazio non ha successo. Poco male, grazie all'assiduità con La Malfa frequenta leader politici e rappresentanti della grande borghesia industriale ed economica. E' La Malfa che lo manda all'Eni nel 1975. Necci racconta di aver appreso la notizia alla tv, che non ne sapeva niente, che non ne era convinto, che il Pubblico non faceva al caso suo. La Malfa per convincerlo ad accettare gli avrebbe addirittura proposto un seggio da deputato e un futuro da segretario del partito. Necci ricorda di aver scritto una lettera di cortese ma fermo rifiuto, quell'ambìto posto nella giunta Eni pare non lo volesse per niente. Invece accettò. La giunta esecutiva Eni era un posto di potere immenso ma poco retribuito: un ufficio e tre milioni l'anno. Necci decide così di continuare la sua attività professionale e rinuncia anche a quel misero gettone. Fin qui il racconto di Necci medesimo, ma c'è chi racconta l'episodio in modo diverso. Necci voleva quel posto e il Pri lo scelse perché preparato, era l'uomo giusto al posto giusto. Senonché, poco dopo, nel partito scoppia la grana Giuseppe Galasso, lo storico napoletano sconfitto a sorpresa nel collegio elettorale campano dall'ex liberale Francesco Compagna, passato da poco al Pri. La Malfa capisce che non può perdere un intellettuale come Galasso, anche se iscritto all'ala sinistra del partito. Così pensa di affidargli il posto di Necci all'Eni. Non glielo dice chiaramente, tergiversa. Cerca di convincerlo che l'attività di manager mal si concilia con quella di uomo politico. Del resto, lo stesso aveva detto a Bruno Visentini che si apprestava ad assumere incarichi extrapolitici: o la Confindustria o il Pri, scegli. Necci ascolta e resiste. Non era uso a obbedir tacendo, anche se ne dava l'impressione. La Malfa si innervosisce e fa una sfuriata, Necci è costretto a scrivere una lettera di dimissioni ma un influente deputato repubblicano con responsabilità di governo lo convince a cestinarla. Rimane all'Eni e per sei mesi La Malfa non gli rivolge la parola. Il tempo e i buoni risultati di Necci all'Ente petrolifero, convincono il vecchio Ugo a soprassedere. La pace viene siglata a casa di Lorenzo, presenti le due signore Paola Marconi Necci e Orsola La Malfa. Il rapporto con Piazza dei Caprettari
Tutta l'attività di Necci nell'azienda di Stato è concordata con Piazza dei Caprettari. Non c'è passaggio cruciale o strategico sia all'Eni sia all'Enichem che non venga relazionato al partito. La Malfa e il Pri gli danno sempre il via libera, si fidano di lui, anche perché vedono in Necci un politico-manager con un progetto di sviluppo per il paese. Comincia la grande trasformazione del figlio del ferroviere di Fiuggi. Tiene conto del vecchio consiglio che gli diede La Malfa e lascia, apparentemente, la politica attiva che invece continua nell'ombra. Da politico con competenze manageriali diventa manager con ottimi rapporti politici, anche internazionali.
Siamo agli albori del "neccianesimo", sottile arte politica che si abbevera alla scuola politica del vecchio La Malfa. Il leader repubblicano nel 1973 rimase impigliato in una storia di finanziamenti illeciti (scandalo petroli). Si alzò in Parlamento e difese con vigore il sistema dei partiti dicendo di essere orgoglioso di aver preso quei soldi per finanziare il Pri. In questo ambiente che invoca trasparenza ma è attento ai costi della politica, cresce il giovane Necci. Morto La Malfa, riesce a entrare nelle grazie di Giovanni Spadolini anche se i due, al fondo, non si amano. Necci, a cena con gli amici, racconta questo episodio: prima che l'ex direttore del Corriere diventasse presidente del Consiglio, fecero un viaggio negli Usa. Spadolini tenne una lezione a Georgetown, incontrarono George Bush. Al ritorno in Italia, ancora in aereo, Spadolini si sentì male, pensò di morire e prese la mano di Necci: "Muoio per l'Italia, raccontalo agli italiani". Niente di grave, aveva bevuto due whisky di troppo al bar dell'aeroporto. Lo sconfinato ego di entrambi li portava a mal sopportarsi. Necci avrebbe preferito Bruno Visentini alla segreteria del Pri o il giovane La Malfa, Giorgio. Prevalse Spadolini, Necci non si oppose. Roma. Nessuno lo sa, gli annali non lo riportano. Lorenzo Necci è stato presidente dell'Eni. Per la precisione, lo è stato per un solo giorno. Anzi per una notte. Era il 2 novembre 1989. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Nino Cristofori, lo chiama al telefono: "Caro Necci, complimenti, venga a Palazzo Chigi, porti un curriculum". Necci chiama l'autista e s'invola verso la residenza del premier, che allora era Giulio Andreotti. La voce si diffonde. Necci non è ancora arrivato a Palazzo Chigi che già scoppia una grana: se l'Eni va a Necci, l'Iri a Franco Nobili e l'Efim a Giacomo Mancini, qualcosa non torna. Vabbé che Necci ha buoni rapporti con il Psi ma, insomma, è difficile gestirlo, gioca per sé, ha legami internazionali. Così si rimescolano le carte, e nella notte, prevale Gabriele Cagliari. L'indomani suonano come una beffa gli auguri di Francesco Cossiga all'oscuro del ribaltone notturno.
La lunga carriera all'Eni è fondamentale per aprire qualche squarcio di luce intorno alla parabola misteriosa di Lorenzo Necci, politico e boiardo di Stato. Da membro Pri della giunta esecutiva, passa alla chimica, partecipa al fallimento di Enoxy, cerca alleanze internazionali, crea la sub-holding Enichimica (poi Enichem), prepara la privatizzazione e disegna il quadro finanziario della fusione della chimica pubblica con Montedison. Un potere sempre più grande che si conclude nel marasma di Enimont, che lascia improvvisamente per motivi poco chiari.
Nel 1993, quando è già alle Ferrovie, sembra esserci un ritorno di fiamma tra San Donato e il manager dalle mille risorse e dalle mille relazioni. Il governo presieduto da Giuliano Amato deve fare fronte ai conti pubblici che non tornano (e quindi alla necessità di privatizzare le aziende statali) e all'emergenza Tangentopoli che fa cadere a uno a uno i boiardi di Stato. Necci è presente, nel senso che non è caduto. E' disponibile. Come sempre. Con Amato ha ottimi rapporti, insieme hanno avviato i piani di risanamento delle Ferrovie e posto le basi per la trasformazione delle Fs in spa. Il premier socialista gli offre la presidenza Eni, ma pochi giorni dopo Necci riceve un avviso di garanzia su Enimont per falso in bilancio. Fu solo un avviso, il bilancio era stato approvato a giugno del 1990, Necci se ne era andato da Enimont qualche mese prima, a febbraio. Amato, ironico, gli dice che forse l'autore di quell'avviso è proprio lui. Insomma, almeno per una volta, le inchieste fermano Necci. Ma basta una scrollata di spalle che il fastidio sparisce.
La chimica per Necci comincia nel 1981. Il settore era in forte crisi, l'Italia era il fanalino di coda in Europa. Necci sembra l'uomo giusto al posto giusto, ha i necessari appoggi politici, è preparato e sembra avere un progetto di rilancio industriale. Il Pri scommette sull'operazione, perde il suo posto nella giunta esecutiva Eni, ma ora guida il processo di riconversione della chimica nazionale. Necci ha l'occasione di sfruttare le sue influenti conoscenze internazionali, che già dal 1970 comincia a consolidare all'interno della Tpl. La società di progettazione e di impianti, crocevia di mille inchieste giudiziarie e di infiniti misteri miliardari, nata per iniziativa di un ingegnere genovese, Cavanna, con altri tre soci italiani, alcune società francesi e un gruppo di persone di Sofima. Necci cura gli affari legali per nove anni e sostiene di averla abbandonata per non essere riuscito a diventarne azionista. Secondo qualche procura, la verità è un'altra: l'avvocato di Fiuggi sarebbe tuttora un socio occulto. Com'è, come non è, l'attività italiana della Tpl si intreccia con quella di manager pubblico di Lorenzo Necci. Nella chimica o nelle ferrovie, dove c'è Necci c'è anche la Tpl. E, come vedremo, anche Chicchi Pacini Battaglia.
Necci intuisce che per uscire dalle secche, la chimica italiana, ancora arretrata e improduttiva, ha bisogno di partner internazionali. Viene individuato il gruppo Occidental del miliardario americano Armand Hammer, famoso per aver acquistato il codice di Leonardo. Nasce una joint- venture che prende il nome di Enoxy. Per l'Eni la segue Necci, per l'Occidental lo stesso Hammer. I due si frequentano. Hammer è un mito, per Necci. Ha conosciuto Lenin e si vanta di aver aiutato la Rivoluzione d'ottobre. In realtà deve ai bolscevichi le sue fortune: mandava in Russia generi alimentari in cambio di opere d'arte e gioielli dell'Hermitage. Ha un aereo con due camere da letto, biblioteca, salotto e quadri d'autore al posto degli oblò. Per intenderci, è "l'unico grande imbroglione" che Necci dice di aver mai incontrato. E, infatti, aveva rifilato all'Eni miniere estine e inesistenti. Necci diventa chairman di Enoxy ma solo per un anno. L'accordo non stava in piedi.
A Necci rimangono numerosi contatti americani e diventa amico dell'ambasciatore Usa a Roma, Raab. I rapporti con la Francia, intanto si intensificano. Necci conosce il figlio del presidente Mitterrand, che è consulente petrolifero, ma è la ristretta, elitaria e solidale cerchia degli Enarchi che lo affascina (a Parigi tutti quelli che contano, oltre a stretti legami massonici, vantano studi all'Ena, la celeberrima grande scuola d'amministrazione). Necci comincia ad entrare nel giro, diventa uno della casta. Tra i suoi amici c'è Eduard Balladur, presso il quale manda a fare esperienza politica la figlia Alessandra. E quando, da presidente delle Fs, diventa capo delle Ferrovie mondiali è Parigi (dove ha una casa pagata con i soldi di Pacini) che deve ringraziare. In Italia si vocifera di legami massonici, per Necci è tutta invidia. In quegli anni conosce Loik Le Floch-Prigent, suo potente omologo francese. Come Necci passa dal petrolio (Elf Aquitaine, che tra l'altro controllava la Tpl) alle Ferrovie (Sncf) per finire coinvolto in uno scandalo di tangenti.
Il fallimento di Enoxy, comunque, non scoraggia Necci. Convince il management Eni a staccare la gestione finanziaria e strategica della chimica dalla casa madre. Nasce Enichimica. Il presidente, naturalmente è Necci. Comincia un'epoca di razionalizzazione del settore condotta senza scontri frontali con il sindacato di settore, allora guidato da Sergio Cofferati. Cambiano i governi, all'Eni arrivano Umberto Colombo e poi Franco Reviglio. Necci è sempre lì. Attua una politica di rialzo dei prezzi che porta il bilancio in pareggio nel 1985 e tre anni dopo in attivo. L'affare Enimont
Necci è lo zar della chimica, almeno fino a quando irrompe Raul Gardini. Fallito il tentativo internazionale con l'Occidental, Necci prepara il quadro per un'alleanza strategica con Montedison, colosso privato. La prima cosa da fare è cercare il consenso politico. Necci ne parla con Giovanni Spadolini, che si convince. Dc e Psi sono d'accordo. Mediobanca anche, e punta su di lui. L'idea era quella di una società mista, Enimont, quotata in Borsa ma con maggioranza Eni. Passò invece la gestione paritetica. Quaranta per cento a Eni, quaranta per cento a Montedison, venti al mercato. Nello statuto di Enimont le parti si impegnano a non comprare quel 20%.
Necci, naturalmente, è il presidente, Sergio Cragnotti l'amministratore delegato per conto di Gardini. Necci è orgoglioso della sua creatura, Pacini Battaglia qualche anno dopo dice che "Enimont era una pazzia tecnica". Quando nel luglio 1989 Gardini annuncia di voler comprare tutta Enimont, si capisce che la joint-venture non sarebbe durata. Comincia la guerra della chimica. Necci racconta di essere stato chiamato da Gardini e dal presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari. "O accetti o vai via", gli avrebbero detto. Necci non partecipa alla riunione del comitato degli azionisti che decide l'ingresso di due nuovi membri nel cda e che avrebbe mutato l'assetto di Enimont, a favore della parte privata. Carlo Sama detta alle agenzie un comunicato che più o meno recita così: Necci si dimetta. E Necci si dimette. Sostiene di essere andato da Giulio Andreotti. E il presidente del Consiglio gli avrebbe detto: "Hai fatto bene a dimetterti, almeno ne rimane uno pulito in grado un giorno di raccontare la storia". Ma quel giorno non è ancora arrivato. E sui motivi perché non sia arrivato, c'è qualche procura che indaga. Quando il conflitto tra Eni e Montedison diventò insolubile, intervenne il governo. Davanti al ministro Franco Piga si firmò il famoso "patto tra cowboy". Se uno dei due soci avesse lanciato un'offerta di acquisto, l'altro avrebbe dovuto vendere al prezzo fissato (2805 miliardi) oppure resistere e acquistare per la stessa cifra la quota di chi ha lanciato l'offerta. Alla fine fu Eni a comprare la quota di Gardini. E' il cuore del processo Enimont e Necci ne rimane fuori. Nell'inchiesta milanese non fu ascoltato nemmeno come persona informata sui fatti. Eppure le autoaccuse di Cragnotti (5 miliardi dalla Tpl divisi tra Gardini e Necci e depositati alla Karfinco di Pacini) e le rivelazioni di Raffaele Santoro (Necci aveva un occhio di riguardo per Tpl) avrebbero potuto far pensare altrimenti. Ma la procura di Milano, nella persona di Antonio Di Pietro, preferì credere a Pacini che in seguito, intercettato, dirà: "Sono stato io ad aver salvato Necci". Necci, intanto, aveva ricominciato. Alle Ferrovie. Questa volta su proposta di Bettino Craxi. Roma. Sinn Fein, che vuol dire "noi stessi da soli". In gaelico. Lorenzo Necci si sente così, come un indipendentista irlandese. Solo. E in disgrazia. Ma a differenza dei cattolici dell'Ulster è ancora indeciso se firmare o meno il trattato di pace. Intanto per il libro di memorie che sta scrivendo pensa proprio al nome del braccio politico dell'Ira, Sinn Fein. Un uomo solo. Costretto nella sua casa romana di via Donizetti (il gip di Perugia ieri ha respinto l'istanza di libertà), non ha ancora deciso quando pubblicare questo suo diario. C'è ancora l'ennesimo saggio sul sistema Italia da piazzare. Avrebbe dovuto uscire nelle librerie prima dell'arresto, ma le circostanze e una perquisizione fin troppo meticolosa l'hanno impedito. Il dischetto che conteneva il nuovo libro sul capitalismo italiano fu sequestrato. Ora le bozze sono di nuovo pronte. Chissà se sarà pubblicato. Il titolo è, come sempre, immaginifico: "2001, il Jurassic park del capitalismo". Nel 1992 voleva "Rivalutare l'Italia" insieme con Manfred Gerstenfeld, tre anni dopo con Richard Normann preferiva già "Reinventare l'Italia", libro presentato a Parigi alla presenza del bel mondo della finanza laica. Ora che gli è caduto il mondo addosso è più catastrofico. Pensa che l'Italia stia per essere svenduta agli stranieri. Forse in parte è già stata venduta. Ma non può farci niente. Non può "girare" né "vedere gente". Guarda la grande tv del suo soggiorno. Chissà perché la sua videoteca è piena di film per bambini. Non scrive più poesie. I suoi sigari cubani stanno lì, pronti a essere offerti a ospiti che non arriveranno, a commensali che non potranno più essere serviti da carabinieri fuori servizio, come ai bei tempi. L'impegno con Di Pietro
Non è più il brillante tessitore di mille alleanze, non riceve più leader politici, ma non considera la nuova classe dirigente migliore di quella precedente. Lui che è stato un punto di passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, uomo della prima trasmigrato in modo avventuroso e rocambolesco nella seconda. Nel nuovo mondo si è mosso benissimo, con autorevolezza manageriale e sapienza politica. A un certo punto ha anche pensato di poter governare e guidare il cambiamento. Anche dopo il primo arresto del 15 settembre del 1996. Quando a marzo dell'anno successivo, la Corte di cassazione ha sentenziato che non avrebbe dovuto essere arrestato, ha tentato di rialzare la testa. Si è parlato di un suo impegno politico con e per Antonio Di Pietro, il Foglio ha anche raccontato di una misteriosa cena con l'ex pm in un ristorante milanese. Sembrava pronto a risanare le ferrovie delle Repubblica ceca. Politica & management, come sempre. Per ricominciare. Poi altri guai giudiziari, che sembrano non finire più. Non ha mai abbandonato la politica, neanche adesso che non può più farla. Perché se è vero, come si dice, che potrebbe cominciare (o che ha già cominciato) a collaborare con i magistrati, non saranno politiche le conseguenze delle sue rivelazioni?
Nel 1990, su proposta di Bettino Craxi, approda alle Ferrovie. Il presidente del Consiglio è Giulio Andreotti. Necci avrebbe preferito l'Alitalia, ma fa lo stesso. Sono gli anni in cui Necci diventa Lorenzo il Magnifico, il grande elemosiniere, il manager colto e charmant amico di tutti i potenti. E' vicino alla destra quando governa il Polo, a Lamberto Dini quando è l'ora dei tecnici, alla sinistra quando è il tempo dell'Ulivo. Con Berlusconi avrebbe dovuto fare il superministro delle Infrastrutture. Con Prodi ha un rapporto speciale. Il professore bolognese è Garante dell'Alta velocità, la società da lui fondata, Nomisma, riceve l'incarico (e 10 miliardi e rotti) per studi passati alla storia per aver scoperto che "il beneficio dell'Alta velocità è la velocità". A casa di Necci si incontrano Berlusconi e D'Alema, il tentativo per un governo Maccanico delle larghe intese è cosa sua. "Tonino (Maccanico) è mio fratello" ama ripetere. Non dispiace né a Occhetto né a D'Alema né a Veltroni. Anche in Francia è socialista con François Mitterrand e gollista con Edouard Balladur e Jacques Chirac. Persino su Maastricht riesce a passare per euroscettico e allo stesso tempo per euroentusiasta. "Capacità di corrompere restando nella legge"
Necci è affabile, fascinoso, elegante, addirittura solenne per i giornali italiani e internazionali. E' amico di tutti. A tutti trova un posto, una consulenza, una collaborazione. Ex collaboratori di Di Pietro nelle indagini di Mani pulite (Mauro Floriani, coniugato Mussolini) vengono strappati a peso d'oro dalla Guardia di finanza. I capi del sindacalismo ferroviario diventano dirigenti delle Fs. Ai dipendenti che chiedevano il pagamento di straordinari arretrati concede una quota forfettaria e ai sindacati riconosce 60 mila lire per ogni lavoratore che rinuncia al ricorso al pretore. Costo dell'accordo: sei miliardi, a vantaggio dei sindacati. E' la sua forza, la capacità di sedurre gli interlocutori, anche quelli animati delle più cattive intenzioni nei suoi confronti. Il senatore verde Maurizio Pieroni la chiama "capacità di corrompere restando nella legge".
Quando arriva alle Fs comincia a parlare di Alta velocità, di quadruplicamento dei binari, di ammodernamento delle stazioni, di privatizzazioni, di risanamento, di infrastrutture, di progetti, di strategie. I progetti e le strategie sono il suo pallino, il suo chiodo fisso. "Entro il '99 tutte le stazioni saranno rifatte, i treni saranno nuovi, la rete ristrutturata, l'alta velocità sarà finanziata dai privati". Non è vero, ma sembra sia arrivata la rivoluzione per le disastrate Fs. Il futuro sembra a portata di mano. A Villa Patrizi gli affibbiano un soprannome che per un manager equivale a una condanna: fru fru. Il giudizio più duro sulla sua gestione arriva da un amico. Uno della sua squadra, diceva lui. Uno della sua banda, si commenta ora. Pacini Battaglia. Intercettato, a proposito della candidatura di Necci al ministero dei Trasporti, dice: "E' vero che te dici: in sei anni lui non è stato capace nemmeno... figurati in due anni ai Trasporti non farà una sega, questo è verissimo".
Necci va come un treno. Vuole chiudere i rami secchi delle Ferrovie, "è più conveniente regalare un'auto a ogni viaggiatore". Si vanta di aver ridotto i ritardi sul Pendolino Roma-Milano, ma sugli orari dei treni fa scrivere: tempo di percorrenza quattro ore e 15 minuti. Venticinque minuti in più del necessario. In pratica, istituzionalizza il ritardo. Vuole comprare tutto, l'Alitalia, la Finmare, la Saima, la Sotecni, gli Aeroporti di Roma, la Fime. Un polo integrato dei trasporti, via mare, terra, aria. Nessuno è in grado di conocere l'intera galassia ferroviaria: tra controllate e partecipate saranno almeno 150 le società delle Fs. La filosofia di Necci è quella della verticalizzazione: se il trasporto ferroviario non si ripaga con i proventi dei biglietti, meglio alleggerire i conti dello Stato producendo profitti con altre attività imprenditoriali. E così dall'enciclopedia Treccani al turismo, dalle idrovie alla costruzione di parcheggi, dagli alberghi alla pubblicità, dalle assicurazioni alle attività di comunicazione di ogni tipo non c'è settore di cui le Ferrovie di Necci non si occupino. Secondo Il Mondo, poi, Necci ha una serie di affari privati che un manager pubblico non dovrebbe avere. E giù una lista di business miliardari a rischio di conflitto d'interesse per la partecipazione di società in rapporti con le Fs.
Gli amici lo adorano e se lo contendono. Nemici ne ha pochi, e comunque sono poco potenti. Il deputato ligure di An Francesco Marenco lo tallona con trentatré interrogazioni sulla gestione delle Ferrovie. Nessuno gli risponde e lo stesso Gianfranco Fini fa finta di niente. Nello studio di Cesare Previti fonda l'Agenzia per il Giubileo. Nello studio del sindaco Francesco Rutelli progetta la "cura del ferro" per la città eterna in vista del 2000. Con Rutelli è amore. Il Corriere titola: "Rutelli & Necci, la strana coppia del mattone". Il Manifesto sforna inchieste sulla presenza delle Fs nelle scelte urbanistiche di Roma. Alessandra Necci entra nel comitato olimpico sconfitto da Atene nella corsa per i Giochi del 2004. Necci papà rifiuta cortesemente una candidatura a sindaco offerta dal centrodestra per contrastare Rutelli.
Ora che gli imputano i disastri del Pendolino e che in Parlamento il ministro Claudio Burlando lo accusa di ogni nefandezza, prepara tabelle e mostra documenti. Sembra una tigre ferita, fatica a mantenere il suo aplomb. Snocciola dati, cifre. Nella sua gestione le Ferrovie sono diventate una società per azioni, i bilanci sono stati (quasi) risanati, l'organico dimezzato, e così via. Eppure sono gli anni alle Ferrovie ad essere passati al setaccio dalla magistratura. L'Alta velocità innanzitutto, e la Tpl soprattutto. Necci viene arrestato a La Spezia per l'affare Contship, l'acquisto di una società (mai avvenuto) di trasporti, e per le regalìe di Pacini. Nel frattempo, ad Aosta, l'inchiesta Phoney money lo chiama in causa, così come la procura di Venezia per il disastro ambientale di Porto Marghera. Necci non c'entra niente, e ne esce. Alla magistratura romana non vanno giù nemmeno le parcelle pagate ai suoi legali. Centinaia di milioni, sostengono, sono stati pagati dalle Ferrovie, ma lui nel frattempo si era dimesso.
A gennaio del 1997 lo indagano (subito archiviato) anche per il disastro del Pendolino a Piacenza. Poi arriva l'inchiesta di Milano sulla costruzione dello scalo Fiorenza. La procura dispone una misura cautelare a gennaio e a marzo chiede il rinvio a giudizio. Il 28 c'è l'udienza preliminare. Con Necci sono coinvolti i costruttori Luigi Rendo, Vincenzo Lodigiani, la cooperativa rossa Ccc e l'immancabile Pacini Battaglia. I magistrati perugini non se ne stanno con le mani in mano. Arresti domiciliari per una presunta corruzione (in concorso con Pacini) dei magistrati Giorgio Castellucci e Renato Squillante. Necci è accusato di aver affidato consulenze ad amici dell'ex pm Castellucci per ottenere l'archiviazione di due procedimenti sull'Alta velocità. Ritorna, poi, la storia già raccontata da Sergio Cragnotti a Milano sui 5 miliardi di tangente Tpl divisi con Gardini e Necci tramite la Karfinco di Pacini (su cui indaga Brescia). La Tpl viene passata al setaccio. Quando Necci era all'Eni otteneva contratti miliardari per costruire cartiere e raffinerie in Iran e dissalatori in Sicilia, quando passa alle Fs riceve l'incarico di studiare l'alta velocità e le ferrovie. A Necci vengono contestati anche fondi per otto miliardi passati attraverso la Karfinco di Pacini e amministrati in Francia da Mario delli Colli, manager della Tpl. L'appartamento di rue Marceau è stato comprato con un mutuo estinto dai soldi di Pacini. Che tra una cosa e l'altra è stato sbancato per un miliardo e mezzo.

L'ex Ad delle Ferrovie è morto poco dopo il ricovero in ospedale
L'incidente sulla strada di Fasano, in Puglia, dove possedeva una masseria

Lorenzo Necci investito e ucciso
mentre andava in bicicletta

Era stato amministratore delegato anche di Enichem ed Enimont


Lorenzo Necci

FASANO (BRINDISI) - Ha perso la vita in un incidente, travolto da un'auto mentre era in bicicletta, l'ex amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Lorenzo Necci. La tragedia è accaduta intorno a mezzogiorno di oggi in Puglia, sulla strada provinciale che collega Fasano con la località costiera di Savelletri.

L'ex dirigente, soccorso e accompagnato nel vicino ospedale di Ostuni, in provincia di Brindisi, è morto alcune ore dopo il ricovero, per le gravi lesioni e fratture multiple riportate. Necci era nato a Fiuggi, in provincia di Frosinone, nel 1939 ed era stato prima presidente di Enichem, poi di Enimont e amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato fino al '96.

L'ex manager era in vacanza con la sua compagna in una masseria di Fasano, dove abitualmente trascorreva i fine settimana. Necci stava percorrendo in
bicicletta la strada che porta dalla masseria San Domenico al campo da golf, che dista un paio di chilometri, ed era in compagnia di Paola Balducci, ex assessore regionale pugliese all'ambiente dimessasi da qualche giorno perché eletta alla Camera dei deputati nella lista dei Verdi. A un incrocio il manager è stato investito da una Range Rover, che viaggiava in direzione del mare. Necci è stato portato con un'ambulanza del 118 all'ospedale di Ostuni, dove gli sono state diagnosticate fratture multiple e scomposte costali e al bacino. Alcune ore dopo il ricovero è morto per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una complicanza.

Lorenzo Necci, figlio di un ferroviere e di una casalinga, dopo gli studi in giurisprudenza cominciò la carriera di manager nella multinazionale belga Sofima, del gruppo Societe Generale. Amico personale di Ugo La Malfa, fu eletto segretario regionale del Pri, poi nel '75 passò al settore pubblico con l'ingresso nella giunta dell'Eni presieduta da Pietro Sette. Alla fine dell'81 divenne responsabile del progetto chimico del gruppo con la nomina alla presidenza di Enichimica. Nel dicembre 1988 divenne presidente del'Enimont, ma si dimise nel febbraio di due anni dopo.

Nel giugno successivo fu chiamato all'incarico di amministratore straordinario delle Ferrovie dello Stato e avviò il progetto dell' alta velocità e restyling delle stazioni. Tra i personaggi chiave del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, sottoposto a numerose indagini, uscì indenne dalla bufera di Tangentopoli. Il 15 settembre del 1996 fu arrestato per associazione a delinquere finalizzata a reati contro la pubblica amministrazione, peculato, corruzione aggravata, abuso d'ufficio, false comunicazioni sociali, truffa in danno delle ferrovie, ma fu in seguito rimesso in libertà per "totale insussistenza degli indizi".

Necci si vanterà in seguito di essere stato assolto 42 volte, ma nel suo casellario giudiziale - oltre all'assoluzione nel maxiprocesso al Petrolchimico di Marghera, che lo vedeva imputato con altre 27 persone - figurava anche una condanna definitiva per corruzione nel processo per le tangenti pagate sui lavori di Ferscalo Fiorenza a Milano (3 anni e due mesi ridotti a 2 anni e 7 mesi in secondo grado). Il 2 marzo 2006 il Tribunale di Roma dichiarerà estinti per prescrizione i reati contestatigli assieme all'ex patron della Parmalat, Calisto Tanzi.