mercoledì 11 luglio 2007

Articolo del 2000 sulle privatizzazioni

Le nuove privatizzazioni

IL CASO ITALIANO
Franco Giordano
L'ultimo decennio ha visto un imponente processo di privatizzazioni che in pochi anni (dal 1993) ha spinto l'Italia in cima alla classifica dei paesi industrializzati per volume di risorse finanziarie ricavate dalle privatizzazioni ed entrate nella casse dello Stato al fine pressoché esclusivo di ripiano del debito pubblico. Duecentomila 1 miliardi incassati che fanno impallidire persino la Gran Bretagna della signora Thatcher, ferma a un quarto circa di quella cifra. Recentemente uno studio di Mediobanca ci offre persino una insospettabile, ma eloquente, nota a margine dell'intero processo: per realizzare il massiccio piano di cessioni "i soggetti pubblici si sono avvalsi di numerosi intermediari (consulenti, valutatori, collocatori, operatori, pubblicitari) ai quali sono stati erogati compensi pari, mediamente, al 3% dei controvalori lordi", vale a dire 5.600 miliardi.
Non ho qui lo spazio per analizzare l'impatto, per certi versi drammatico, che le privatizzazioni di importanti e strategici settori del nostro apparato produttivo hanno provocato sul versante occupazionale e sulla perdita strutturale di competitività dell'industria e della ricerca italiana. Si attendono inoltre studi analitici che traggano un bilancio veritiero della nuova morfologia dei poteri che questo processo ha determinato negli assetti economici e del rapporto nuovo con settori del sistema politico italiano.
Quello che è avvenuto in questi anni potrebbe tuttavia risultare persino di minore impatto rispetto a ciò che può andare ora in porto con la cosiddetta 'riforma' dei servizi pubblici locali. Si tratta di un Disegno di legge già approvato dal Senato e attualmente all'esame della commissione Affari costituzionali 2 della Camera, che prevede, in buona sostanza, l'obbligo di privatizzare servizi pubblici locali di rilevanza industriale (acqua, gas, energia, rifiuti, trasporti).
Il giornale della Confindustria, "Il Sole 24 ore", qualche tempo fa ha definito questo progetto di legge "la riforma più importante della legislatura". E c'è da credergli. Si tratta di una 'riforma' che potrebbe attivare privatizzazioni per 150.000 miliardi e coinvolgere circa 1000 imprese per complessivi 150.000 addetti e 20.000 miliardi di fatturato 3. La grossa partita, come vedremo non soltanto economica, sembra finora rimasta confinata nei convegni di esperti convocati dalle organizzazioni imprenditoriali, o nelle aule del Parlamento. La dimensione apparentemente tecnica della materia tende a escludere ogni forma di critica sociale e politica. E i contrasti, trasversali tra centro-destra e centro-sinistra, vertono più su elementi interni alle logiche aziendali e agli interessi attivati che sulle enormi conseguenze sociali e istituzionali del provvedimento.
Questa impermeabilità del processo decisionale al controllo e alla critica è stata politicamente interrotta quando, alla recente Assemblea nazionale dell'Anci (Associazione nazionale dei comuni d'Italia) la delegazione del Partito della rifondazione comunista ha promosso una mozione, poi firmata da circa cento sindaci o amministratori di altrettante città, di diverse aree politiche, che chiedeva una radicale modifica di questo provvedimento.
È indispensabile chiarire che - oltre che per le imponenti dimensioni economiche - queste privatizzazioni meritano un'attenzione speciale per i loro effetti sistemici: non soltanto sul tessuto produttivo (i servizi costituiscono un'importante variabile esterna dei bilanci aziendali in quasi tutti i settori), ma anche, e ancor più, sull'insieme delle condizioni di vita dei cittadini e delle comunità, sulle relazioni sociali, sul tessuto democratico delle autonomie. E si tratta, come si può immaginare, di effetti, talora devastanti, sulla qualità dei servizi prestati, sulla universalità degli accessi, sulle disparità territoriali nell'offerta, sulla qualità del lavoro degli addetti.
Ma conviene procedere con ordine. Il contesto culturale, meglio: la categoria, entro la quale matura questa privatizzazione è quella della 'sussidiarietà' , che non a caso torna d'attualità dopo i fasti della Bicamerale. Ritorna nella modifica dell'Art. 118 della Costituzione, approvata in prima lettura alla Camera nel testo sul cosiddetto 'federalismo'. Ritorna esplicitamente quando si afferma che "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà". Viene così messo in questione l'Art. 3 della Costituzione, e l'introduzione del mercato e del profitto in attività che rispondono a bisogni sociali diffusi, altera l'eguaglianza e la rende formale. Così, i due provvedimenti combinati prefigurano le condizioni di costruzione di uno Stato sociale minimo. È il modello americano che dilaga sia in campo costituzionale che in quello economico-sociale.
Del resto, che di una scelta determinata da motivazioni ideologiche si tratti è ampiamente dimostrato dalla debolezza delle motivazioni economiche chiamate a sorreggere il provvedimento. Infatti, l'obbligo alla vendita non solo introduce un metro di valutazione indistintamente negativo per tutte le aziende pubbliche, ma altera le stesse regole del mercato deprezzando immediatamente il patrimonio. Inoltre la decisione di vendere viene sottratta ai comuni medesimi.
Sotto l'alibi della 'modernizzazione' si velano aspetti inquietanti: la privatizzazione della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, che numerose inchieste giudiziarie sull'ecomafia hanno già segnalato come terreno di pesante infiltrazione della criminalità organizzata le consegnerebbe la possibilità di occupare quote di mercato nella spartizione di un gigantesco business che comprende settori, dall'acqua al gas, dai trasporti all'energia, che hanno una grande importanza 'civile' e toccano la quasi totalità della popolazione italiana.
Poiché è chiaro che le aziende private entrerebbero in questi servizi - molti dei quali sono legittimamente gravati da costi sociali - per realizzarvi profitti, da dove si pensa che esse ricaverebbero le loro plusvalenze se non dalla bassa qualità delle prestazioni o dalla manipolazione delle tariffe (con buona pace delle sciocchezze che si diffondono sulle meraviglie della concorrenza in materia), o dalla riduzione del costo del lavoro? Non si tratta di un pregiudizio. L'esperienza finora accumulata nelle 'esternalizzazioni' di servizi da parte di molti comuni dimostra che la leva del contenimento dei costi viene manovrata prevalentemente sul costo del lavoro. È lecito pensare che le aziende candidate ad assumere i servizi privatizzati non aspettino altro. Si andrebbe dunque a un'ulteriore sostituzione di lavoro stabile, e a volte anche qualificato, con lavoro precario e privo di tutele. Le inevitabili diseguaglianze territoriali nell'offerta renderebbero infine incolmabile un divario 'di civiltà'.
Come si vede, si tratta di un mutamento strutturale delle condizioni di vita di larghissimi strati di popolazione, del potere e dell'autorevolezza sociale della democrazia delle autonomie. Contrastare questo processo è auspicabile e, viste le difficoltà di questa fase terminale della legislatura, possibile. Il cosiddetto 'federalismo', con il suo corredo di 'sussidiarietà', è alla prima delle quattro tornate parlamentari, e l'avvio della nuova legge finanziaria tiene lontano dall'aula il provvedimento di privatizzazione dei servizi.
Ma non saranno certamente schermaglie e tattiche parlamentari a impedire questo degrado. Esse potranno tornare utili se questi temi saranno sottratti alla separatezza 'tecnica' che li ha accompagnati finora nel loro cammino. Se daranno alimento a vertenze territoriali, se diventeranno lotte sociali che vedano protagonisti i lavoratori in via di privatizzazione e i loro enti locali. Se saranno materia di trattative programmatiche per il rinnovo degli enti locali. Se non si potrà far valere almeno la qualità, i prezzi, la trasparenza e la missione sociale dei servizi pubblici, che cosa farà la differenza di un'amministrazione? In che cosa si distinguerà il suo essere democratica e di sinistra?
È anche dall'esito di questa battaglia che dipenderà la sorte del processo di 'aziendalizzazione' della politica nel nostro paese.
Franco Giordano è capogruppo alla Camera dei deputati per il Partito della rifondazione comunista

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