lunedì 9 luglio 2007

Madame Ceausescu in Prodi, e l'Occidente

di Maurizio Blondet
La signora Prodi ha rilasciato un’intervista ad un giornale (non ricordo quale: l’ho colta per radio, nella rassegna-stampa di RAI3), molto addolorata per la rivolta degli italiani contro il centro-sinistra e il governo di suo marito.
E’ che la gente non vuol pagare le tasse, ha detto.
«I cittadini non sanno quanto costano allo Stato per l’istruzione, la sanità…».
Prego notare la mentalità che rivela qui madame Prodi.
Per lei, non sono i politici e i parassiti pubblici che costano ai cittadini; sono i cittadini che costano troppo a loro.
Madame Ceausescu, la consorte e ispiratrice del dittatore rumeno, non avrebbe detto meglio.
Questo genere di lamentela era certo argomento comune tra le signore del Sud schiavista, all’ora del te: «Non sanno quanto ci costano per alloggiarli, nutrirli, mantenerli in salute. Ingrati, questi negri. Appena possono, rubano. O scappano».
Non evoco a caso la memoria di madame Ceausescu: la dittatura rumena è stata l’ultimo esempio di come il sistema comunista - o un sistema statale parassitario chiuso, come quello italiano - sbocchi nel despotismo orientale.
Mentre il suo popolo sfinito moriva di fame e di terrore sotto la polizia politica, Ceausescu si costruiva un palazzo esteso su molti ettari, di complicatissima pianta e inverosimilmente ornato: un palazzo di Cnosso, di stile burocratico-babilonese, affascinante nel suo lussuoso pessimo gusto orientale.
La sede del potere del despota divinizzato.
Il socialismo reale è sboccato, al suo estremo, nel culto del despota: Stalin, Mao in Cina, Kim Il-Sung in Corea del Nord, con complessi rituali di adulazione e di esaltazione a cui erano (sono) obbligate folle de-personalizzate, e soggiogate, «le masse».
Il comunismo è stato una revivescenza - ma spinta all’estremo patologico - di ciò che vi è di «orientale» nell’autocrazia russa di sempre e insieme, nell’«oriente» dispotico, il solo concepibile dai suoi capi ebraici, il Terrore.
Giudeo-bolscevismo, era fin dall’inizio tendente all’Oriente.
Il parassitismo delle burocrazie inadempienti come sistema totale ci sta riducendo ad «orientali» nello stesso senso?
Il tema mi è stato sollecitato da una rivista serba che mi ha intervistato per il mio «Stare con Putin?».
I cortesi giornalisti mi hanno chiesto tra l’altro «Lei è molto critico nei confronti di un regime asiatico, come la Cina. Sfinito il golem americano, saremo nelle mani impietose di un drago-gigante esperto nei commerci? Oppure c’è il motivo di essere ottimisti sperando in una unione eurasiatica futura?».
Ho risposto d’impulso: no, la Cina no. Ma ora sento che devo spiegare meglio agli amici serbi: perché riconosco i loro vasti sogni slavi così grandiosi rispetto alla agra realtà presente, e alle poche forze reali - l’Eurasia, la Russia-Cina come liberatrice e riscattatrice universale! - e vi riconosco l’insidia, che ha già portato a tanti mali ed errori non solo i serbi, ma i russi.
E che mina il nostro futuro e il loro.
Il dramma slavo è sentirsi fra Oriente ed Occidente, mai decisi per l’Europa, e perciò inclini a nutrire il compito epico e fantastico di «unire» l’Europa all’Asia…
Non è un sentimento disprezzabile.
Lo nutrì uno dei genii russi che considero più «necessari» all’Europa, nel senso che l’Europa avrebbe meno luce e coscienza di sè, se non fosse esistito: Dostojevski.
Il grande Dostojevski ha scritto pagine indimenticabili contro la Svizzera: sì, la Svizzera come simbolo ed epitome di un’Europa piccina, col suo «ordine» gretto e la sua gretta pulizia delle strade, le sue perfette istituzioni da bottegai e da contabili.
Coglieva nel segno, anche.
Geniale, Dostojevski deplorò Cavour, perché unificando l’Italia l’aveva ridotta, da centro dello spirito universale, «una media potenza» fra le altre.
Ma nell’intuizione profonda, Dostojevski non capiva - o non accettava di capire - ciò che davvero distingue Oriente da Occidente, l’«Europa» dall’«Asia».
La differenza è radicalmente «politica».
E l’ha espressa bene Ernst Junger (non il mio autore preferito, né così «necessario» come Dostojevski): «In Occidente», dice, «il Principe regna su uomini liberi. Ciò gli pone dei limiti, ma costituisce anche la sua forza. Questa libertà [che] crea una quantità di rapporti delicati e vulnerabili, […] circonda l’Europa di frontiere più solide che le piazzeforti [o la Grande Muraglia cinese, ndr.]. (1)
Il perché s’intuisce, spero: regnando su uomini liberi, il Principe (il potere) si avvantaggia delle energie creatrici, dell’intraprendenza, dinamismo e della inesausta curiosità intellettuale che gli uomini, quando sono liberi, esprimono spontaneamente.
Una grande energia, anche nella difesa, nell’offesa, nella tecnologia. La scoperta dell’America, lo slancio dei grandi navigatori italiani ed iberici, la curiosità di sapere com’è il mondo e di conquistarlo, nacque in Europa da mercanti, avventurieri, coraggiosi o delinquenti ma - tutti - uomini liberi: liberamente al servizio del loro re o imperatore.
Le scoperte tecniche, macchine a vapore, motori, fucili, telegrafo, nacquero dallo stesso spirito.
Nel tardo ottocento, uno studioso cinese che aveva viaggiato in Occidente cercò di spiegare ai suoi conterranei asiatici che la forza dei «diavoli bianchi» non era, come credevano loro, nel brutale materialismo, nella sete dell’oro e nei loro mezzi tecnici strapotenti che si potevano toccare con le mani.
«La vera forza dell’Inghilterra», scrisse, «sta nel fatto che là vi è una mutua simpatia fra governanti e governati». (2)
Questa «mutua simpatia» è qualcosa che non c’era in Cina, e che non c’è nemmeno oggi.
E’ un altro modo di dire che qui, «il Principe regna su uomini liberi»: incoraggia la loro libertà per suo vantaggio anziché reprimerla, e così ne ricava lealtà, la lealtà di uomini liberi nel servire.
Questa «mutua simpatia» non è una forza materiale, dovuta alla sete di profitto: è una forza spirituale.
Il savio cinese riteneva che questa forza venisse dal cristianesimo.
Non aveva abbastanza ragione: l’Occidente della libertà nasce, come sappiamo, in Grecia.
L’esempio della libertà nel servire lo Stato lo dà Socrate: incarcerato ingiustamente, rifiuta di fuggire ed accetta la condanna a morte perché - dice - la città che mi ha reso sicuro da bambino fra le sue mura, non può essere tradita quando mi condanna.
Libero anche davanti al boia, accettato liberamente.
I greci erano così gelosi della loro libertà occidentale da battersi fino alla morte per non diventare persiani: di quel dispotismo orientale - così mite e saggio, in confronto al giudeo-bolscevismo e al despotismo cinese - guardavano con sospetto speciale, come simbolo di servaggio, l’obbligo della proskynesis, della genuflessione di fronte al Gran Re.
Ecco la differenza tra Occidente ed Oriente. Tale differenza è così radicale, da rendersi visibile persino nei sistemi che chiamiamo, tutti insieme alla rinfusa, «totalitari».
Che piaccia o no, i fascismi e perfino il nazismo furono in questo radicalmente diversi dallo stalinismo e dal maoismo.
I primi suscitarono ‘obbedienza’ (e l’entusiasmo) di uomini liberi.
La Gestapo non dovette mai esercitare il terrore, il controllo e il sospetto sull’intera popolazione da sottomettere, come fece la polizia sovietica nelle sue varie incarnazioni, Ghepeù, NKVD, KGB. Poteva occuparsi solo dei nemici politici, una minoranza, mentre il popolo collaborava attivamente (ciò che rimproverano gli ebrei: «i carnefici volontari di Hitler»).
Ciò risparmiava energie - poliziesche, ma non solo.
Hitler non abolì la proprietà privata: ecco un altro indizio e una differenza radicale.
La proprietà privata, gli industriali, collaborarono liberamente alla terribile guerra, perché condividevano la visione e il fine; i chimici inventarono la gomma e la benzina sintetica, gli scienziati studiavano sempre nuovi esplosivi, gli ingegneri pensavano giorno e notte a come risparmiare metalli e materiali rari.
Piaccia o no, questa esplosione di energie creative non è da schiavi spaventati.
Niente di simile a quel che avveniva in URSS (e in Yugoslavia, cari amici serbi): il furto di materiali, lo spreco, il finto-lavoro, l’ozio stracco nelle fabbriche, la trascurata sporcizia delle case che sono dello Stato e perciò di nessuno...
Non è un giudizio di valore, si badi.
E’ un fatto oggettivo.
Per questo il nazismo e il suo «successo» va studiato, per questo - se fu un errore - fu un errore europeo.
Che va accettato come «nostro», e non censurato come un tabù da non avvicinare.
Questo divieto di pensare è già «Asia».
Per questo, cari amici slavi, vi invito all’Occidente.
Perché stare in Oriente significa stare in un sistema debole, che alla lunga mostrerà la sua debolezza: come l’URSS, corazzata ed armata, s’è piegata sotto la sua corazza e s’è dissolta da sé, senza aggressione esterna.
E’ la debolezza del despotismo, anche nella forma umana di autocrazia.
Essa funziona se lo zar è acuto, informato e cosciente dell’interesse nazionale (come Putin) ma funzionerà anche con il prossimo zar?
Bisogna suscitare la lealtà degli uomini liberi, che né i governanti né i governati temano la libertà e la mettano al servizio della causa comune.
E’ questo il problema dell’Asia: la mutua simpatia fra governanti e governati.


Nicolae Ceausescu e la moglie Elena Dice Junger: «Il dispotismo [asiatico] comincia quando le frontiere [della libertà personale, che è tutt’uno con la dignità e inviolabilità personale] non vengono percepite, quando anzi non se ne constata più neppure l’esistenza».
Allora il Principe usa gli uomini come cose, come oggetti.
Prescrive loro minutamente, con ordini, punizioni e divieti, «come» devono fare le cose, anziché additare loro «cosa» si deve fare, come obbiettivo incitante.
Molte energie vanno perdute.
Sprecate.
«Con decreti imposti d’autorità è possibile introdurre certe forme statali, ma non la sostanza giuridica che ne costituisce l’efficacia…lo stesso accade con la tecnica: è facile trasferirne le forme, ma non trasferire i principii di cui esse si informano. In Oriente, la grandezza può manifestarsi attraverso l’arbitrio, mentre in Occidente non può mai esservi associata: l’arbitrio esclude la grandezza o vi imprime una macchia».
Spero comprendiate, amici slavi, che quando vi invito a decidervi per l’Occidente - e spero ardentemente che la Russia scelga l’Occidente - non parlo dall’alto di una qualunque superiorità. Spero sia chiaro che questo invito è rivolto anche a tutti noi, «occidentali» solo per posizione geografica, ma già ogni giorno più «orientali» nel senso politico.
Gli Stati Uniti sono già una potenza asiatica: non solo e non tanto perché hanno affondato le loro armate nel centro dell’Asia, che intendono occupare stabilmente, ma soprattutto perché in patria il regime che ha preso il potere governa con metodi asiatici: la «democrazia» è manovrata e occupata dietro le quinte dalla nota lobby «asiatica» (come gli eunuchi di corte nell’impero ottomano), la stampa americana rinuncia per timore alla libertà - e dunque alla dignità - e non dice più tutta la verità, le libertà personali sono ristrette con la scusa della «lotta al terrorismo», è stato creato un dipartimento della Sicurezza Interna (Homeland Security) che è già il seme della futura Securitate rumena; si incarcerano senza processo stranieri combattenti, si condona o legalizza la tortura.
L’Europa non sta meglio.
Non ci auto-governiamo più: ci adattiamo ad essere amministrati, ossia allevati (come le pecore) da una burocrazia che non abbiamo scelto e che non chiamiamo a rendere conto, da poteri occulti a cui molti di noi collaborano, servili, per la carriera.
Come pecore, ci adattiamo ad essere tosati, abortiti quando secondo il pastore il gregge è troppo numeroso, e presto ad essere macellati (con l’eutanasia) quando siamo troppo vecchi e non più produttivi. In Italia, poi, è peggio.
Non è questione del governo Prodi, un altro sarebbe lo stesso: è il sistema chiuso del regime pubblico parassitario che ci sta mettendo ai ceppi.
Non ci incita alla libertà: al contrario, Visco ci sospetta tutti di essere evasori, e prova ad esercitare un controllo sovietico su ogni nostra attività.
Controlla i nostri conti in banca, e li sequestra se ritiene che non abbiamo pagato le tasse.
Lungi dall’esaltare le nostre energie creative, il sistema ci pone infiniti ostacoli, prescrizioni, obblighi e condizioni punitive al «fare».
Ci prescrive minutamente «come» fare le cose, invece di metterci nelle condizioni di farle ed incitarci all’imprendere, all’inventare, all’esplorare e rischiare in proprio.
Il management per «prescrizioni» minuziose è tipico della statalismo (e del sovietismo asiatico). Inutile dire che è inefficace, e che la forma migliore è il «management by goal», comandare indicando lo «scopo» (goal) che si vuol raggiungere - la «visione» da condividere fra governanti e governati, la sola che suscita le energie creative e le lealtà degli uomini liberi, senza disperdere energie nel controllo asfissiante delle «deviazioni» e delle «evasioni».
Il «managemente by goal» non è modernissimo: lo usarono i re di Aragona e Castiglia, quando lanciarono le nazioni ispaniche nell’impresa comune dell’impero, non con la tracotanza ma con l’invito cordiale: venite anche voi a fare qualcosa di grande insieme - è europeo.
Ancora prima, lo usarono i romani ampliando la cittadinanza e il sistema giuridico a tutti gli «stranieri» di ieri: rileggetevi gli Atti degli Apostoli e constatate, meravigliati, quanto i governatori e proconsoli romani fossero facilmente accessibili, quanto ascoltassero le ragioni di un qualunque Paolo (quando la folla degli ebrei glielo trascinavano davanti esigendo urlanti che fosse punito), quanto si spaventassero a sapere che Paolo era «cittadino romano» e loro l’avevano fatto frustare… perché c’erano evidentemente conseguenze, se un funzionario privava della libertà e dignità un cittadino romano.
Questa è la «cordialità politica».
Quella che manca un po’ agli slavi (e anche ai tedeschi), ma manca ormai anche a noi e ai nostri oppressori che chiamiamo «governanti».
Le conseguenze sono evidenti. Nessuna simpatia fra governanti e governati, in Italia, ma reciproco sospetto e insofferenza.
La libertà soffocata dalle prescrizioni arbitrarie si manifesta in forma patologica: accaparramento, manifestazioni di piazza contro le centrali o le discariche, rabbiose insubordinazioni dappertutto, questa è la «società» italiana, un nugolo di dissociazioni, di secessionismi locali.
Energie creative, manco a parlarne: arretramento generale della ricerca, della cultura, della voglia di lavorare, perchè tanto non si può diventare ricchi onestamente (riflesso sovietico).
Furti di tempo e di materiali.
I nostri giovani si drogano come i coolies cinesi nelle fumerie d’oppio.
Furberie da suk negli uffici pubblici, nelle banche e in Borsa.
La libertà intesa come delitto porta a questo: che si delinque ampiamente e continuamente, nel poco e nel tanto, aggirando e violando le norme idiote come le leggi giuste.
E il peggio è che ci manca il coraggio di far paura a questi parassiti: perché la libertà non richiede solo né tanto intelligenza, richiede coraggio.
Il coraggio della dignità personale.
Il coraggio di difenderla.
Il coraggio delle Termopili, o della rivoluzione dei liberi.
Invece ci lasciamo comandare come schiavi negri.
E madame Ceausescu sposata Prodi può permettersi di lamentarsi di noi: «Non sapete quanto ci costate, per istruirvi, per darvi l’assistenza sanitaria e la pensione…».
Amici slavi, scegliete l’Occidente.
Non pensate alla Cina, come vi tenta un vostro oscuro complesso d’inferiorità, il timore di non saper vivere «sotto norme precise e con metodi esatti», diciamo svizzeri.
Se ci sono riusciti i giapponesi che da asiatici hanno messo sotto i loro samurai per diventare occidentali nell’800, se l’hanno capito parecchi cinesi, come volete non lo capisca il popolo che ci ha dato Tolstoy, Dostojevski, Solgenitsin, per non parlare di Mendeleyev, il genio della chimica?
Tanto più che, come vedete, anche noi non siamo più tanto occidentali, e tendiamo all’«Asia» di Prodi e di Visco, di Bush o di Bruxelles.
Perché ad essere occidentali, bisogna continuamente imparare e reimparare, e spesso si va indietro anche noi verso l’Asia, e tocca ricominciare.
Insomma, serbi e russi, non arrivate a lavoro già fatto: il lavoro è ricominciato, venite anche voi a fare - cordialmente - qualcosa di grande insieme.

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